di Ferdinando Di Dato
Riassunto
Il testo effettua una riflessione sul ruolo del Mezzogiorno nella costruzione dell’Italia contemporanea, partendo dalle riflessioni di Vincenzo Cuoco sulla crisi e il fallimento del 1799, che inserì il regno nella lotta globale tra rivoluzione e controrivoluzione. Vincenzo Cuoco fu un’intellettuale e politico capace di interpretare le nuove aspirazioni politiche, economiche e sociali, che fecero del Mezzogiorno una parte non subordinata dell’Italia moderna.
Parole chiave: repubblica, astrazione politica, rivoluzione passiva, liberismo e liberalismo, assolutismo, questione politico-amministrativa,decentramento amministrativo, riformismo.
Vincenzo Cuoco nacque nel 1770 a Civitacampomarano in Molise, da una famiglia di estrazione sociale borghese e, dopo aver ricevuto una prima istruzione di stampo illuministico, nel 1787 fu inviato a Napoli a studiare il diritto; qui entrò in contatto con il Galanti, diventando suo allievo. Nella città partenopea approfondì il pensiero del Machiavelli e del Vico: autori che resteranno sempre un costante punto di riferimento nei suoi scritti. Negli anni rivoluzionari fu simpatizzante dell’Illuminismo, del quale condivideva la visione riformistica e non giacobina (cfr. G. De Ruggiero,1922). Il suo impegno politico attivo iniziò con l’arrivo dei Francesi a Napoli e con la conseguente partecipazione alla Repubblica napoletana del 1799. Per aver partecipato alla rivoluzione, durante la prima restaurazione borbonica, fu segnalato personalmente da Ferdinando IV al cardinal Ruffo per l’arresto, ma dopo nove mesi di prigione fu esiliato prima in Francia poi a Milano, dove nel 1801 pubblicò il suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, che venne ampliato nell’edizione del 1806. Il Cuoco, nel Saggio storico, cui faceva seguire in appendice i Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, affrontava con molta lucidità il problema del fallimento della Rivoluzione Partenopea, ricercandone le cause, e confrontandola con quella francese (cfr. A. De Francesco, 1997). Il Molisano partiva dalla critica al metodo dei rivoluzionari partenopei, accusandoli di astrattezza politica per aver iniziato una rivoluzione perdente in partenza, dal momento che non erano riusciti a dare una risposta ai sentimenti e ai bisogni reali del popolo. Cuoco ammirava sinceramente la devozione dei patrioti alla causa della liberta, ma criticò la loro scarsa saggezza politica, dovuta alla poca conoscenza della storia del popolo napoletano. Le parole repubblica e patria suonavano lontane e strane agli stessi rivoluzionari:
Tra i nostri patrioti (ci si permetta un’espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; altri lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertà con la licenza, e credeva acquistare colla rivoluzione il diritto d’insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente rivoluzione era un affare di calcolo (Cuoco, 1999: 157-158).
La retorica e la politica dei patrioti erano ispirate da ideali, «idee astratte», che erano cari solo a una minoranza. Proclamarono la libertà, ma il popolo napoletano non sapeva che cosa fosse la libertà. Quest’ultima, sottolinea Cuoco, non è un’idea ma un sentimento; deve essere vissuta, non dimostrata con ragionamenti. La libertà esige l’unità culturale. Una delle cause principali della debolezza della rivoluzione napoletana era la distanza che separava la cultura dei patrioti da quella del popolo. I patrioti avevano idee, costumi e un linguaggio diversi da quelli del popolo napoletano. Culturalmente, gli intellettuali, i patrioti, erano più francesi o inglesi, mentre il popolo che essi chiamavano alla lotta era napoletano. L’ammirazione dei patrioti per le culture straniere, quindi, fu uno degli ostacoli maggiori per la conquista della libertà. La libertà, sottolinea Cuoco,
è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l’agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l’accrescimento dell’industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertà. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertà, rassomiglierebbe, all’Alcibiade di Marmontel, il quale voleva essere amato per se stesso (Ibid.: 168).
Il popolo napoletano invece voleva tasse più eque, la fine delle lotte fra i nobili e la redistribuzione delle terre appartenenti agli ordini ecclesiastici e alla corona. Le rivoluzioni vincenti si fanno con il popolo e per il popolo, che per il Cuoco era la classe intermedia tra la plebe e la nobiltà: il popolo insomma si identificava con la classe borghese, che esisteva solo come concetto. Per il Cuoco, la borghesia era “quella classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra il popolo e la nobiltà. Questa classe, se non è potente quanto la nobiltà e numerosa quanto il popolo, è però dappertutto sempre la più sensata”. (Ibid.: 170).
La rivoluzione, dunque, per il Cuoco, avrebbe potuto sortire effetti duraturi solo se i rivoluzionari avessero puntato al coinvolgimento popolare e se si fossero fatti interpreti dei bisogni collettivi di un popolo. Avrebbero dovuto, invece, non seguire idee «astratte», perché erano più francesi che napoletane. La Repubblica, dunque, nasceva solo grazie alle baionette francesi e «per volontà di pochi» contro «l’ostilità dei più». È per questi motivi che il Molisano definisce la rivoluzione napoletana «passiva», in quanto la rivoluzione attiva è fatta dal popolo, mentre quella passiva è ricevuta da esso. Nella rivoluzione attiva il moto è interno, in quella passiva è esterno; nel primo caso il popolo «pone da sé stesso a ciò che più da vicino l’interessa» (Ibid.: 172). Nella rivoluzione passiva, invece, «convien che l’agente del governo indovini l’animo del popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non saprebbe procacciarsi» (Ibidem). Comunque, nelle parole del Cuoco il termine «ricevuta» non significava che la rivoluzione venisse subita, ma «ricevuta» dal popolo, perché i rivoluzionari, come già detto, si erano ispirati alle idee straniere e poco alle esigenze napoletane. I patrioti del 1799 fallirono nei loro intenti, proprio perché erano stati troppo «astratti» nelle loro idee, sui diritti degli uomini e dei cittadini, ispirandosi ai modelli stranieri. La rivoluzione era stata, insomma, opera della filosofia e per questo motivo i patrioti erano stati troppo distaccati dalle necessità del popolo napoletano. Scriveva, infatti, il Cuoco: «perché una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il popolo non si muove per raziocinio, ma per bisogno» (Ibid.: 93) e precisava e aggiungeva: “I bisogni della nazione napolitana eran diversi da quelli della francese: i raziocini de’ rivoluzionari eran divenuti tanto astrusi e tanto furenti, che non li potea più comprendere” (Ibid.: 93).Con queste idee, il Cuoco si poneva nella scia dei pensatori controrivoluzionari come De Maistre e Burke.
Le vedute dei patrioti e quelle del popolo, sfortunatamente, non coincidevano: essi avevano idee diverse, diversi costumi e addirittura parlavano due lingue diverse. La nazione napoletana, se la si guardava in orizzontale, era divisa in molti popoli (calabresi, dauni, irpini, abruzzese, etc), per quante erano le province, ma se l’avessimo guardata verticalmente avremmo visto solo due popoli: la parte colta, che si era formata su modelli francesi e inglesi, e la parte subalterna, che era rimasta «Napolitana» ed incolta. Così la cultura di pochi non aveva giovato ai molti. Però, se è vero che c’è stato un distacco tra le classi colte e il popolo, è pur vero, scrive il Cuoco, che il popolo da solo non avrebbe mai fatto la rivoluzione, anche se era pronto a riceverla (Ibid.: 92). Questo concetto chiarisce l’interpretazione di «rivoluzione passiva» del Cuoco. Il problema, quindi, era di trovare il «favore» del popolo, un punto di incontro per coinvolgerlo e il compito doveva essere affidato al ceto egemone. Quest’ultimo sarebbe stato alla base dello Stato censitario, tipico del futuro liberalismo moderato. Per il Cuoco questa era l’unica strada politica possibile per evitare l’anarchia ed eliminare ogni forma di «dissenso e di opinioni». Egli dava importanza all’idea di libertà, ma intesa non come «licenza, né sfrenatezza, né villania», ma come libertà civile, libertà della «sfera di attività private e familiari del cittadino»; una libertà che avrebbe portato un lento e graduale sviluppo. La libertà, quindi, sosteneva il Cuoco, era un bene che avrebbe prodotto altro bene, quale «la sicurezza, l’agiata sussistenza, l’accrescimento dell’industria», a vantaggio del popolo. Negli anni della Rivoluzione, in Europa si videro anche fenomeni estremistici e controrivoluzionari, come quelli dei Sanculotti e della Vandea in Francia, della Santa fede e dei “lazzari” a Napoli. Il Cuoco su questi fenomeni espresse delle considerazioni di ordine pedagogico, in quanto era fautore dell’intervento dello Stato per la formazione del popolo, il quale doveva essere ben educato ed istruito secondo gli ideali di patria e di gloria nazionale.
Per la questione politico-amministrativa, il Cuoco era fautore del decentramento, in quanto dava importanza agli antichi parlamenti napoletani, attraverso i quali il popolo, con i suoi rappresentanti, avrebbe potuto formalmente far sentire la sua voce di dissenso, come quando in passato aveva difeso i Comuni dalle usurpazioni baronali e dal fisco. Su questo problema il Cuoco entrò in contrasto con il suo conterraneo Giuseppe Zurlo, il quale non era favorevole al decentramento amministrativo, perché vedeva le amministrazioni locali dominate solo da potenti consorterie locali e dai baroni. Comunque, per il Cuoco, ai parlamenti non tutti avrebbero potuto votare, perché dovevano essere fortemente censitari; pertanto per essere cittadino non bastava abitare in una «patria», ma bisognava essere proprietari di beni o esercitare un «mestiere non servile». E gli eletti dovevano essere, non «i filosofi», perché considerati inetti al governo, ma i “migliori”, «gli ottimi», che erano gli uomini appartenenti alla classe intermedia tra il popolo e la nobiltà. Questi ideali collimeranno perfettamente con quelli della monarchia napoleonica, la quale farà affidamento proprio sugli «ottimi». Il Cuoco rimarrà sempre fedele agli ideali moderati e riformatori dei francesi, soprattutto quando questi ultimi a Milano e a Napoli con i Napoleonidi adoperarono una serie di importanti riforme, miranti a rendere più razionale l’organizzazione dello Stato, utilizzando i proprietari come amministratori per organizzare le province e i comuni (Meriggi, 2002: 49-95).
Purtroppo, a causa della politica di guerra, delle conseguenze economiche del Blocco continentale e dall’accentuarsi del dispotismo di Napoleone, il rapporto tra regime e borghesia, che inizialmente era stato forte proprio in virtù del programma di attuazione delle riforme, si incrinò. Certo c’erano state anche richieste più estreme, avanzate da una parte minoritaria del paese, come la libertà di opinione, le garanzie politiche e costituzionali, che Cuoco riteneva importanti da attuare, ma in futuro e gradatamente; in quel momento bisognava solo evitare di cadere nel terrore giacobino. La sua posizione antigiacobina è evidente in un suo scritto del 1806, Il Platone in Italia, in cui si attenuavano i riferimenti polemici contro i monarchi e i tiranni, facendo cadere ogni esplicita aspirazione repubblicana. Egli cominciò, quindi, a prendere le distanze dalla Rivoluzione francese, proponendo agli intellettuali italiani il problema nazionale, le virtù militari e la fiducia nelle forze italiche, «l’energie nazionali», come egli le chiama. L’opera è importante dal punto di vista ideologico, perché intendeva affermare la supremazia culturale italiana rispetto a quella francese e a quella europea in genere; per l’esaltazione della cultura italiana, il Cuoco potrebbe essere considerato il precursore di quella corrente moderata che si svilupperà nel primo Ottocento e che culminerà nell’opera Del primato morale e civile degli Italiani di Gioberti.
Il Cuoco, già dalla prima edizione del Saggio, si pose il problema sulla forma istituzionale da dare al nuovo Stato. Egli, inizialmente, prospettava indifferentemente sia la soluzione repubblicana che quella monarchica, con a capo un principe virtuoso. L’esperimento fallimentare del ‘99, purtroppo, aveva lasciato in lui il segno, che lo portò ad una lunga riflessione sulla rivoluzione negli anni dell’esilio. Si può dire, dunque, che dopo queste esperienze il suo spirito repubblicano andò pian piano affievolendosi, prendendo una posizione sempre più monarchica. Nella seconda edizione del Saggio del 1806,il Cuoco aggiungeva un approfondimento storico-politico del Regno di Napoli fino al 1799, dove si paragonavano le importanti riforme caroline a quelle della Milano napoleonica. Il Molisano, però, fu fortemente impressionato dalle riforme e dalle innovazioni introdotte dal regime napoleonico, le quali lo portarono verso l’accettazione convinta del regime monarchico, allontanandolo definitivamente dalle idee repubblicane.
Cuoco, sotto l’aspetto socio-economico, poneva alla base del suo pensiero la proprietà privata, l’abolizione degli ordini privilegiati del regime feudale e l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge. Per lui la proprietà privata era alla base della coscienza borghese, perciò esaltava l’abolizione dei fedecommessi, aboliti dalla legge sull’eversione della feudalità del 1799 come premessa necessaria per la realizzazione della «libera proprietà». Si deve ricordare che nella prima edizione del Saggio storico Cuoco, come d’altronde Giuseppe Zurlo, sulla questione dell’eversione della feudalità era più vicino a soluzioni radicali che moderate (cfr. Villani, 1962; 1974). Egli poi, a differenza del Pagano, che voleva rinviare ad un altro tempo la controversia, era convinto che il problema andava risolto subito e attraverso la formazione di commissioni, che avrebbero dovuto studiare tutta la storia giuridica delle campagne meridionali, di fronte alle quali i baroni avrebbero dovuto dimostrare che le loro terre feudali eburgensatiche fossero libere da ogni atto di usurpazione. Sulle terre feudali successivamente i baroni avrebbero perso il diritto di possesso che, però, si sarebbe trasformato in diritto di proprietà privata. Sulla questione dei demani, baronali e statali, il Cuoco era contrario alla divisione di questi tra i contadini poveri, nel senso che dovevano essere divisi tra coloro che avevano i mezzi per poterli coltivare; solo così si sarebbe avuto uno sviluppo agricolo di tipo moderno. In ogni modo, nel Saggio storico Cuoco si distingue anche come scrittore raffinato e non solo come storico; infatti elaborò il suo testo con una prosa nuova, lontana dalla retorica neoclassica del tempo.
Bibliografia
Cuoco, V. (1999), Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di P. Villani, Milano: BUR.
De Francesco (1997),Vincenzo Cuoco. Una vita politica, Bari: Laterza.
De Ruggiero, G. (1922), Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari: Laterza.
Meriggi, M. (2002), Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna: Il Mulino.
Villani, P. (1962; 1974), Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari: Laterza.