Riassunto: Nel presente saggio si analizza il vuoto di rappresentanza delle istanze sociali, economiche e civili dei cittadini meridionali mediante una comparazione critica tra le tesi meridionaliste dello storico Gaetano Salvemini, dell’economista Pietro Massimo Busetta e del dirigente politico Natale Cuccurese, per poi porre l’esigenza di un meridionalismo sì di analisi critiche e proposte di risoluzione della nuova questione meridionale, ma anche e soprattutto di un meridionalismo di lotte dal basso da declinare nell’ottica dell’intersezionalità.

Parole chiave: Sud, meridionalismo, nuova questione meridionale, rivoluzione copernicana, rappresentanza, lotte dal basso, intersezionalità.

1. Sud senza rappresentanza
Nel corso degli ultimi trent’anni la progressiva ascesa della Lega Nord e della sua conseguente egemonia sul piano politico-culturale, che, a sua volta, nel corso degli stessi decenni, si è intrecciato con il pensiero unico neo-liberista (Pallante, 2024: 121-122; Scialpi, 2024), ha contribuito non poco all’attuale centralità della cosiddetta ‘questione settentrionale’.
A tale egemonia ha fatto da pendant la rimozione della questione meridionale dalle agende politiche di tutti i Governi sedicenti nazionali. L’intero sistema, o quasi, dei partiti politici italiani ha inseguito la Lega Nord sui suoi temi caratterizzanti – separatismo, federalismo asimmetrico, critica dello Stato centralizzato e del parassitismo meridionale, a fronte delle esigenze della locomotiva Nord –, sino a giungere alla riforma del Titolo V della Costituzione e alla coeva cancellazione di ogni riferimento esplicito al Mezzogiorno nella Carta costituzionale. Il tutto, a firma del Governo di centro-sinistra guidato dal “dottor sottile” Giuliano Amato, nelle vesti, quella volta, e non solo lui, di apprendista stregone (Ibid.: 78-98).
Infatti, l’introduzione nel dettato costituzionale della possibilità da parte delle Regioni a statuto ordinario di richiedere maggiori poteri, funzioni e risorse economiche su ben ventitré materie a legislazione concorrenziale, tra cui anche quelle di rilievo nazionale concernenti, ad esempio, la salute, l’istruzione, l’energia ed i trasporti, ha ben secondato il progetto eversivo sotteso alla “secessione dei ricchi” (Viesti, 2023: 10), camuffandolo da riforma costituzionale.
Un progetto che, fatto proprio in modo trasversale da tutti i maggiori partiti nazionali sia di centro-sinistra che di centro-destra, mira, visto da Sud, a statuire definitivamente la condizione del Mezzogiorno come colonia estrattiva interna di risorse finanziarie e soprattutto umane, condannandolo, così, ad una desertificazione irreversibile tanto sul piano economico quanto su quello demografico (cfr. Esposito, 2023).
La qualcosa ha contribuito ad evidenziare in modo sempre più chiaro ed inequivocabile il notevole vuoto di rappresentanza delle istanze, dei bisogni e dei diritti disattesi, ridimensionati o azzerati dei cittadini italiani residenti al Sud, a cui, ogni anno, vengono indebitamente sottratti, sempre che la Costituzione abbia ancora un valore, ben 60miliardi di euro di spesa pubblica allargata pro-capite (cfr. Napoletano, 2019).
Di recente, sul tema del vuoto di rappresentanza delle istanze disattese dei cittadini meridionali sono tornati ad intervenire sia l’economista meridionalista Pietro Massimo Busetta, sia il saggista e dirigente politico meridionalista Natale Cuccurese.
Il primo, Busetta, da anni denuncia il ruolo negativo delle classi dirigenti meridionali, da lui definite nei termini di “classe dominante estrattive” (Busetta, 2021: 67; 2023: 82), in quanto, in cambio del loro consenso alle politiche nazionali di spoliazione del Meridione, ottengono favori personali e/o funzionali alle loro ristrette clientele politico-elettorali.
Posto che, secondo l’economista palermitano, il Sud necessita di una politica di perequazione, lo stesso si pone una domanda radicale, che spesso, se non sempre, viene elusa sia nel dibattito pubblico che in quello specialistico:

Ma rimane la domanda quali dovranno essere i soggetti del cambiamento in un’Italia nella quale il Nord è dominato da un Partito unico che in una visione nord-centrica e un atteggiamento bulimico non riesce che a pensare al proprio cortile di casa, mentre il Sud è dominato da una classe estrattiva che pensa soltanto a come farsi rieleggere e a continuare quel processo di utilizzo della propria capacità di aggregare consenso per sfruttare una rendita di posizione consolidata? (Busetta, 2023: 169).

A questa domanda fondamentale, Busetta risponde che i “soggetti del cambiamento” (Busetta, 2023: 165) dovrebbe essere il frutto di aggregazione di tutte quelle forze che, a livello, nazionale, non riconoscendosi nel “Partito unico del Nord” (Ibidem) e al di là degli “steccati ideologici” (Ibidem) tra destra e sinistra, si pongano “come obiettivo limitato nel tempo la riunificazione economica del Paese” (Ibidem).

Un partito nazionale – specifica Busetta – che superi anche gli steccati regionali e che si ponga come contraltare alla Lega Nord che ha raggiunto invece l’obiettivo opposto e che sta conseguendo la spaccatura del Paese (Ibidem).

Dal suo canto, anche Cuccurese evidenzia il vuoto di rappresentanza, quando, in un suo recente articolo, osserva che:

La Repubblica italiana infatti nega i diritti costituzionali fondamentali ai cittadini del Mezzogiorno. Non mi riferisco a quanto già più volte denunciato in questi ultimi anni: dai minori trasferimenti statali rispetto alla percentuale del 34% della popolazione che si riflettono su cure mediche minori (che incidono sulla stessa aspettativa di durata di vita dei cittadini meridionali, più bassa che al Nord), o agli asili, alle scuole senza palestre o mense, alla scarsità di insegnanti, alle infrastrutture, ai Lep mai definiti e ora addirittura differenziati e così via. No, mi riferisco proprio a quanto di più sacro per una democrazia: parlo del diritto di voto e di conseguenza di rappresentanza politica che in larga parte al Sud è negata (Cuccurese, 2024).

Negazione di diritto al volto che il dirigente politico meridionalista riconduce al “Referendum del 2020 sul “Taglio dei parlamentari” (Ibidem). Una misura che, a suo parere, acuirà ancora di più la crisi di rappresentanza nel e del Mezzogiorno, in quanto, argomenta Cuccurese:

La densità di popolazione al Sud parametro per l’assegnazione dei seggi alla Camera e al Senato, è infatti più bassa del Nord, e visto che la desertificazione demografica causata dall’emigrazione forzata cresce di anno in anno, la conseguenza è che il Sud, in un Parlamento ridotto e cioè ha un peso politico ancora minore del precedente.

Rispetto a questa dinamica distorta, che può essere considerata un vero e proprio circolo vizioso tra la mancanza di un’adeguata rappresentanza del Sud, l’attuazione di politiche di desertificazione complessiva dell’area e la conseguente perdita di un suo peso specifico in termini di rilevanza politica, che, a sua volta, ri-alimenta le politiche di spoliazione del Sud, Cuccurese, anche sulla base dei dati relativi alle elezioni politiche del 2020, fa valere l’esigenza di un “Sud all’opposizione” (Ibidem).

Pertanto – conclude Cuccurese – come da tempo vado ripetendo, per costruire l’alternativa popolare di sinistra alle parole d’ordine antiliberista, ambientalista, antifascista, femminista e pacifista, va aggiunto meridionalista, visto che il Mezzogiorno non solo è il territorio più povero d’Europa, ma soffre di discriminazioni e di un razzismo di Stato che addirittura penalizza volutamente anche la durata di vita dei suoi abitanti e quindi ha bisogno di un richiamo e di una sua specificità riconoscibile e riconducibile. Bisogna unirsi tutti su più battaglie, in questo caso sul Mezzogiorno, dandogli voce e rappresentanza. A mio avviso la sinistra può ripartire solo da Sud (Ibidem).

Dunque, pur partendo da prospettive disciplinari diverse, la prima economica e la seconda politologica, sia l’economista Busetta che il dirigente politico Cuccurese concordano entrambi nel formulare la stessa diagnosi per la patologica arretratezza di cui soffre il Mezzogiorno: il vuoto di rappresentanza.
Anche se entrambi propongono come rimedio a questa malattia che affligge storicamente il Sud la stessa terapia incentrata sulla costruzione di un’adeguata rappresentanza a livello politico-istituzionale delle sue istanze e dei suoi diritti disattesi, i due divergono per il contenuto della stessa.
Infatti, mentre Busetta sembra fare riferimento alla costruzione di un soggetto partitico post-ideologico, di contro, Cuccurese colloca l’esigenza di una tale rappresentanza nell’ambito delle forze e delle culture politiche di sinistra.
Comunque, al di là delle analogie e delle differenze che intercorrono tra esse, entrambe le analisi, nel porre il tema del vuoto di rappresentanza, si collocano, di fatto, anche, ma non solo, nel solco della ‘rivoluzione copernicana’ che Gaetano Salvemini apporta al dibattito meridionalista: il passaggio dal cosa fare per riscattare il Sud al chi deve fare cosa per garantirne i processi di sviluppo del Meridione sia in termini economici, sia in termini sociali che civili e culturali.
La qualcosa giustifica una comparazione critica tra le proposte di Busetta, di Cuccurese e di Salvemini, al fine di porre il tema fondamentale della costituzione del soggetto politico anche sulla base di un’adeguata analisi materialistica della società meridionale.

2. La ‘rivoluzione copernicana’ di Gaetano Salvemini
A cavallo tra Otto e Novecento, nel drammatico tornante degli anni della crisi di fine secolo, mentre a Milano tra il 6 e il 9 maggio 1898 le truppe del regio esercito italiano comandate dal generale Bava Beccaris prendono a cannonate ad alzo zero le masse popolari che protestano per l’aumento del prezzo del pane, cannonate a cui il 29 luglio 1900 fanno seguito i colpi di rivoltella che l’anarchico Gaetano Bresci esplode contro il re Umberto I, da un lato, il dibattito sulla questione meridionale si arricchisce di nuovi contributi critici, quali quelli offerti dal repubblicano Napoleone Colajanni, dal liberista Antonio de Viti de Marco, dal socialista Ettore Ciccotti e dal democratico Francesco Saverio Nitti, dall’altro, si inasprisce, assumendo una connotazione sempre più territoriale, che viene declinata anche in termini antropologico-razziali (cfr. Teti, 1993).
Infatti, dopo la fase liberale del dibattito sul divario tra il Nord e il Sud del Paese inaugurata da Pasquale Villari nel 1875 con le sue Lettere meridionali (cfr. Villari 1878) e proseguita dagli studi e dalle inchieste di Leopoldo Franchetti (cfr. Franchetti, 1875; 1876), Sidney Sonnino (cfr. Sonnino, 1875; 1876) e Giustino Fortunato (cfr. Fortunato, 1876; 1978-1979; 2003), fase liberale che si caratterizza per la proposta di una riforma agraria che migliori le condizioni di vita e di lavoro dei contadini meridionali, che erano da loro considerati come “oggetto e non possibile soggetto di storia” (Barbagallo, 1978: 23-24), si sviluppano, a partire da altre prospettive e da altre culture politiche, nuove fasi del dibattito sulla questione meridionale, che ne evidenziano altri aspetti e soluzioni.
Tra fine Ottocento ed inizio Novecento, dall’ala radicale del variegato movimento politico-culturale meridionalista, mentre il liberista pugliese Antonio De Viti De Marco (cfr. De Viti De Marco, 1929) evidenzia la funzione coloniale del Mezzogiorno dopo la svolta protezionista dello Stato italiano, il democratico lucano Francesco Saverio Nitti (cfr. Nitti, 1958) denuncia il drenaggio di risorse economiche da Sud a Nord, per poi proporre ed attuare tramite una legge speciale l’industrializzazione di Napoli.
Sempre sul fronte del meridionalismo di orientamento repubblicano e radicale, il siciliano Napoleone Colajanni si caratterizza sia per la sua difesa costante e brillante delle popolazioni meridionali dalle teorie razziste della scuola antropologico-criminale di Cesare Lombroso (cfr. Colajanni 1898), sia per le sue posizioni federaliste ed autonomiste in ambito politico-istituzionale (cfr. Colajanni 1898bis).
È in questo contesto che un giovane socialista, un allora sconosciuto docente di liceo, apporta al dibattito sulla questione meridionale “aria nuova, ne rinnova del tutto i temi, e apre un epoca del meridionalismo, col suo aver posto la politicizzazione delle masse meridionali quale vera base per la rinascita del Sud Italia” (Salvadori,1981: 288-289).
Si tratta di Gaetano Salvemini, che, già allievo del meridionalista liberale Pasquale Villari presso l’Istituto Superiore degli Studi di Firenze, dopo avere esordito tra il 1° marzo ed il 1° aprile del 1897 nella pubblicistica meridionalista pubblicando sulla rivista “Critica sociale” diretta da Filippo Turati e da Anna Kuliscioff un articolo dal titolo Un Comune dell’Italia meridionale: Molfetta, (cfr. Salvemini, 1955) successivamente, tra il 25 dicembre 1898 ed il 14 marzo 1899, pubblica sulla rivista “Educazione politica” di Arcangelo Ghilseri il saggio La questione meridionale, che, appunto, “apre un epoca nuova del meridionalismo” (Ibidem).
Ed “apre un epoca nuova del meridionalismo” attuandovi, sulla base della lezione di Karl Marx ed Antonio Labriola, quella che può essere definita una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’, in quanto, criticando i meridionalisti liberali, egli propone di fondare il riscatto del Mezzogiorno non sulla centralità del cosa fare, bensì su quella del chi deve fare cosa.
Infatti, dopo avere precisato che il Mezzogiorno soffre di tre malattie, lo “Stato accentratore” (Salvemini, 1955: 32), l’“oppressione economica” (Ibid.: 33) subita dal Nord Italia, la “struttura sociale semifeudale” (Ibid.: 34), lo studioso pugliese ne indica anche i rimedi, riforma complessiva della politica italiana (Ibid.: 36), “giustizia distributiva” (Ibidem) tra Nord e Sud e tra classi sociali, per poi commentare: “Tutte belle cose. Ma a me pare che finora, se sono stati studiati benissimo i rimedi, non sia detto ancora chi rimedierà” (Ibidem).

In generale – prosegue Salvemini – gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la metton mai o rispondono sùbito con una parola bisillaba: lo Stato! Quando han così risposto, credono di aver accomodato tutto, e buttan fuori delle eloquenti concioni sul dovere, che ha lo Stato di rendere finalmente giustizia a quelle popolazioni nobili, patriottiche, ecc. e lo Stato fa il sordo. E gli studiosi continuano nelle loro concioni eloquentissime (Ibidem).

Di contro, secondo lo storico pugliese, il problema centrale è quello relativo all’individuazione di

[…] una forza capace di attuare – con o senza violenza, poco importa – le riforme da tutti ritenute necessarie. Datemi un punto d’appoggio, diceva Archimede, e vi solleverò il mondo; ma il punto d’appoggio non lo trovò mai e il mondo se ne rimase tranquillo al suo posto. C’è nell’Italia meridionale un punto d’appoggio, su cui si possa fare leva per sollevare il mondo sociale? O, in altre parole, c’è nell’Italia meridionale un partito riformista? E se non c’è, è possibile che sorga? E quali sono le persone che lo comporranno? (Ibid.: 37)

Per potere dare una risposta a queste domande, Salvemini ritiene che debba essere adottata la prospettiva critica del “materialismo storico” (Ibid.: 38), in quanto, a parere dello storico pugliese, soltanto la sua adozione consentirebbe di individuare la posizione delle principali classe sociali in cui si articola la struttura economica del Mezzogiorno dinanzi alle riforme che occorrerebbe promuovere per garantirne un adeguato sviluppo.
E il “punto di appoggio” (Ibid.: 37) per sollevare il “mondo sociale” (Ibidem), Salvemini non lo individua né nei latifondisti, in quanto, a suo parere, i loro interessi economici sono tutelati dallo Stato liberale (pp. 38-42), né nella piccolo borghesia intellettuale, che, sempre a parere dello studioso pugliese, in alleanza con i latifondisti, accede al controllo delle amministrazioni locali, bensì la “forza” e il “punto di appoggio” per sollevare il mondo sociale meridionale lo individua nel proletariato rurale. Come lo stesso Salvemini scrive:

Non saranno dunque né i latifondisti né i piccoli borghesi quelli da cui partirà il movimento di riforma. Il punto d’appoggio bisogna cercarlo altrove. E questo altrove sta nel proletariato rurale. Che questa sia la classe la quale più di tutte ha bisogno delle riforme, e da esse, quando fossero fatte, riceverebbe maggiori e più immediati vantaggi, è verità da tutti accettata. Il latifondismo ha in essa le sue vittime. La massima parte delle tasse comunali, su cui tanti piccoli borghesi vivono parassitariamente, è pagata da essa. Su di essa per ripercussione cadono tutte le conseguenze delle ladrerie politiche e amministrative, il cui tessuto costituisce la storia della terza Italia (Ibid.: 50).

Successivamente, nel saggio La questione meridionale e il federalismo, da lui pubblicato tra il 16 luglio e il 16 settembre 1900 sulle pagine della rivista “Critica sociale”, per evitare una “guerra orribile” (Ibid.: 106) rispetto alle contrapposizioni territoriali del Paese, deriva da lui definita nei termini di lotta “regionalista” (Ibidem), caratterizzata dal fatto che, osserva il pugliese, dopo quarant’anni di unità “I nordici disprezzano, come dicon essi, i sudici; e i sudici detestano con tutta l’anima i nordici” (Ibid.: 69), Salvemini propone all’interno del campo socialista, repubblicano e democratico di fine secolo, una vera e propria alleanza tra il proletariato agricolo meridionale e il proletariato industriale settentrionale sulla base di una piattaforma programmatica incentrata sulla costruzione del federalismo dal basso.

Mentre i regionalisti unitari – scrive lo studioso pugliese – gridano, per i loro fini occulti, che fra il Nord e il Sud vi è lotta di interessi, i federalisti debbono gridare che non è vero: non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta tra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni del nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e Negri, viva sul lavoro non pagato dei cafoni pugliesi o su quello delle risaie emiliane; prenda a suoi rappresentanti Crispi o Saracco, si affermi sulle colonne del “Corriere della Sera” o nei libri semiscientifici di Nitti (Ibid.: 106-107).

3. Per un meridionalismo di analisi, proposte e lotte dal basso
Il riferimento alla ‘rivoluzione copernicana’ salveminiana, il ribaltamento dell’impostazione della soluzione della questione meridionale dal cosa fare per chi, al chi deve fare cosa, potrebbe contribuire ad articolare ulteriormente la proposta di costruzione di un soggetto politico meridionalista avanzata da Busetta e Cuccurese anche in riferimento alla struttura sociale del Mezzogiorno.
Infatti, sia nel caso della proposta avanzata dall’economista siciliano di “Un partito nazionale che superi anche gli steccati regionali e che si ponga come contraltare alla Lega Nord” (Busetta, 2023: 165), sia nel caso della tesi formulata dal meridionalista emiliano-romagnolo di far sì che il campo delle sinistre assuma come centrale nella sua agenda politica anche il tema della nuova questione meridionale (cfr. Cuccurese, 2024), le loro proposte dovrebbero essere declinate anche in termini di analisi sociale, in quanto il riferimento ad un Sud senza rappresentanza, a cui spesso si fa riferimento in ambito giornalistico per motivi di sintesi divulgativa, proprio dal punto di vista della composita struttura sociale del Mezzogiorno appare del tutto generico.
Allora, occorrerebbe chiedersi se i contadini erano il soggetto sociale su cui fare leva per trasformare il mondo sociale sino alla prima metà del ‘900, oggi qual è o quali sono le nuove soggettività sociali da ricomporre nei termini della coscienza di classe su cui fare leva per l’unificazione sostanziale delle due Italie? Chi in termini di soggettività politiche, nuove o già esistenti, deve dare voce a chi per il riscatto del Mezzogiorno e la realizzazione della coesione solidale dell’intero sistema-Paese?
In altri termini, occorrerebbe declinare l’attuale dibattito sulla nuova questione meridionale sia in termini di analisi critiche, sia in termini di proposte risolutive, sia in termini di lotte sociali dal basso. Occorrerebbe una nuova ‘rivoluzione copernicana’ tanto sul piano della riflessione politica quanto su quello delle pratiche di emancipazione degli oppressi in un’ottica di intersezionalità, che unisca la moltitudine dei movimenti e delle lotte contro le diverse forme di dominio: sociale, di genere, ambientale, generazionale e territoriale.

Bibliografia
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