di Ferdinando Di Dato
Napoleone, dopo la vittoria ad Austerlitz del 27 dicembre 1805 e in seguito all’editto imperiale di Schönbrunn di Vienna (L. Mascilli Migliorini, Napoleone, Roma 2002, pp. 238-284), decise che la dinastia dei Borbone di Napoli per il suo tradimento doveva cessare di esistere, pertanto il Regno di Napoli doveva essere conquistato. Il Borbone, pur avendo firmato un trattato di pace con la Francia, si era alleato con i nemici dell’Imperatore. «L’esistenza stessa dei Borbone era ormai diventata incompatibile con l’onore della corona imperiale; e il comandante Masséna […] ebbe l’incarico di occupare il Regno di Napoli. Il tradimento del Borbone non fu altro che un pretesto per un’invasione che Napoleone aveva già pianificato e che era parte di un progetto imperiale ben più ampio e articolato» (J. A. Davis, Napoli e Napoleone. L’Italia meridionale e le rivoluzioni europee (1780-1860), 2014, p. 211). Il ritorno dei Francesi nel Regno di Napoli, però, non provocò un nuovo sanfedismo di massa come nel 1799, ma sporadici ed isolati episodi di resistenza; solo più tardi si avrà la lotta ai Francesi con il fenomeno del brigantaggio.
Il Regno di Napoli, con l’arrivo delle truppe napoleoniche nel 1806, fu diviso in 14 province. Questa divisione subito evidenziò il grande divario tra Napoli e le sue province, confermando quanto si diceva, ossia che la città fosse sfruttatrice di quest’ultime. Prima dell’arrivo dei Francesi, nel Regno mancava un’organizzazione amministrativa moderna e tutto dipendeva dalla capitale; infatti i Riformatori meridionali consideravano Napoli «una grossa testa posta su un piccolo corpo». Per questi i mali del Regno erano antichi e ben radicati e solo gradatamente, attraverso le riforme, potevano essere estirpati. Il Regno aveva dato i natali ai grandi intellettuali dell’Illuminismo riformatore (Galanti, Filangieri, Palmieri, Grimaldi, Delfico), che avevano già parlato nei loro trattati di riforma dell’amministrazione e di abolizione della feudalità per cambiare le strutture del Regno napoletano. I napoleonidi, ispirati da queste idee, appena conquistato il Regno introdussero grandi e importanti innovazioni nei vari settori della vita civile, già sperimentate positivamente in Francia e in altri Stati. I Francesi con le loro riforme, in sostanza, mirarono ad abbattere lentamente l’ancienregime, per creare un nuovo Stato laico e moderno e trasformare l’economia e la società meridionali (Cfr. A. Musi, Il Regno di Napoli, Brescia, 2016, p. 300). Bisogna dire che alla base del veloce successo della nuova politica dei napoleonidi, rispetto al riformismo settecentesco, fu la forza dell’esercito francese.
Nel Regno, sotto il profilo socio-economico, fino alla fine del Settecento, si erano consolidati dei ceti parassitari, come i baroni e i forensi; questi ultimi sapevano ben interpretare, a loro modo, le leggi che spesso erano anche in contraddizione tra loro; mentre l’economia del regno era ancora rurale e le proprietà fondiarie erano strutturate in proprietà ecclesiastiche, immuni da imposte, vincolate dalla manomorta e soggette ad usi civici. Da esse, che erano molto estese, si ottenevano circa 6 milioni di ducati che andavano agli asili ecclesiastici. Poi vi erano le terre feudali o baronali, delle quali il feudatario era possessore ma non proprietario ed erano sottoposte al pagamento dell’adoa ed esenti da altri tributi. Esse erano soggette alla devoluzione al sovrano in mancanza di eredi e divise in demaniali feudali, soggette ad usi civici, e difese, non soggette ad usi civici. Accanto a queste, inoltre, vi erano i demani universali, terre dell’università soggette ad usi civici. Non mancavano i beni di piena e libera proprietà, che si distinguevano in beniallodiali, se erano proprietà private dei borghesi o dei contadini (Cfr. G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze 1973, pp. 56-558), in terreburgensatiche, se proprietà private dei baroni, e in benipatrimoniali,se appartenevano alle Università (i comuni): queste di solito andavano in affittate. Bisogna ricordare che su questi beni gravava ancora il sistema feudale, che aveva raggiunto un punto di intollerabilità.
Con lo scoppio della Rivoluzione francese, la situazione politica europea precipitò e così terminarono anche i lunghi anni di pace. Infatti, anche a Napoli nel 1799, insieme all’esercito repubblicano francese, era giunta la rivoluzione, spingendo i napoletani, sull’esempio giacobino, alla fondazione della Repubblica, che sfortunatamente durò solo pochi mesi: da gennaio a giugno dello stesso anno. Dopo l’esperienza repubblicana, durante la prima restaurazione borbonica, la vendetta dei realisti fu feroce; difatti finirono sul patibolo tutti i maggiori intellettuali che avevano preso parte alla Repubblica. I Francesi, però, ritornarono nel Regno nel 1806 con le truppe napoleoniche, guidate da Giuseppe Bonaparte, che nel 1808 diventò re di Spagna, lasciando il Regno a Gioacchino Murat.
I due sovrani dovettero affrontare i gravi problemi in cui versava il regno, avviando così un’opera di modernizzazione della vita istituzionale, del territorio, dell’economia e delle finanze, dell’istruzione, della laicizzazione dello stato civile, raggiungendo però risultati migliori in campo istituzionale e amministrativo, rispetto a quelli più propriamente economici. I Francesi dunque avviarono anche nel Mezzogiorno una grande stagione di riforme, cui contribuirono i patrioti esuli del Regno che erano sfuggiti alla carneficina del 1799. Secondo alcuni storici, il 1806 era la continuazione e la conclusione del 1799, con l’applicazione delle riforme che erano rimaste solo sulla carta; per altri, invece, il 1806 portava con sé sostanziali differenze, sia interpretative che applicative delle idee della Rivoluzione francese. Per meglio comprendere ciò, basti analizzare il nuovo quadro politico della Francia, dove non c’era più la Repubblica giacobina ma l’Impero napoleonico, che mirava ad essere egemone in Europa. In ogni modo, Napoli ora non era più una repubblica sorella, ma era una delle colonie francesi, le quali dovevano solo garantire a Napoleone uomini, denaro, utensili e approvvigionamenti per sostenere l’impegno bellico e l’economia dell’impero. Non solo Napoli, ma l’Italia intera doveva diventare «la colonia continentale dell’Impero, come la chiamerà il Montgaillard nei suoi Mémoires diplomatiques, la grasse prairie, che doveva alimentare con le sue risorse l’economia e le dissestate finanze francesi» (C. Zaghi, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina a Regno, in Storia d’Italia, vol. XVIII, tomo I, diretta da G. Galasso. Torino, 1986, p. 360).
Si deve necessariamente ricordare che «Napoleone poteva garantire la sicurezza, non la pace di cui il regno aveva bisogno» (A. Lepre, Storia del Mezzogiorno d’Italia. Dall’Antico regime alla società borghese, vol. II. Napoli 1986, p. 188.) per la sua crescita politica ed economica. I napoleonidi, invece, dal Mezzogiorno d’Italia speravano di ricavare materie prime per l’industria francese e creare un mercato per le esportazioni delle merci, «senza considerare l’opportunità di riconoscere abbondanti pensioni ai più fidati ufficiali dell’Imperatore e di trovare occupazione a orde di avventurieri, artisti, soldati, marinai e funzionari senza lavoro». I Francesi sapevano che per governare tranquillamente avevano bisogno dell’appoggio dei notabili locali, di quelli di estrazione aristocratica e anche degli ex giacobini e perciò cercarono di attuare una politica equilibrata tra i vari partiti e per questo motivo mantennero in servizio anche molti gli ex funzionari borbonici, attirandosi le antipatie dei più convinti repubblicani. I napoleonidi, in ogni modo, diedero una svolta radicale al regno, apportandovi una modernizzazione delle strutture politico-istituzionali e socio-economiche, introducendo uno stato di diritto, leggi universalmente valide e nuove organizzazioni amministrative attraverso ambiziose riforme, che da un lato mirarono a trasformare le strutture economiche e sociali preesistenti e dall’altro a risistemare il diritto a vantaggio degli interessi generali, creando così una vera monarchia amministrativa.
Le leggi dei napoleonidi, dunque, si possono dividere in due parti: «quella che ebbe carattere eccezionale e significò intervento diretto sulle strutture economiche e sociali del regno e quella che significò risistemazione del diritto». Tra le riforme che influirono sulle strutture economiche e sociali ricordiamo: l’eversione della feudalità; le leggi sulla divisione e la privatizzazione del Tavoliere di Puglia e dei demani statali;la confisca e la vendita dei beni ecclesiastici e feudali. Fu introdotto il processo di abolizione della proprietà feudale e di tutti i diritti dei baroni, compresi i loro poteri giurisdizionali e tributari, che furono trasferiti allo stato. Anche i beni feudali subirono la stessa sorte: furono incamerati e poi venduti all’asta dallo Stato, i quali in parte furono acquistati dal ceto borghese in ascesa.
Le leggi, invece, che mirarono alla risistemazione del diritto e dell’amministrazione del regno, erano: la centralizzazione del potere civile con l’articolazione in dipartimenti e prefetture; l’istituzione dei Ministeri, in particolare quello degli Interni; l’istituzione dell’intendenze provinciali; il Codice Civile, quello Commerciale e le leggi penali francesi; la leva obbligatoria dal 1802, della durata di quattro anni; il riordinamento del sistema fiscale, con l’introduzione di tre imposte: la Fondiaria, la Patente e la Personale; la liquidazione del debito pubblico; il decentramento amministrativo e la creazione di nuove e moderne amministrazioni provinciali e comunali; il richiamo allo Stato degli arrendamenti e di altre entrate alienate; una nuova politica culturale, con nuove scuole, e sociale; una nuova organizzazione dei tribunali: furono infatti istituite una Corte di Cassazione e quattro Corti d’appello, una con sede a Napoli e altre tre rispettivamente a Chieti, ad Altamura e a Catanzaro. Furono creati, inoltre, anche una serie di tribunali di prima istanza e nominati dei giudici di pace; l’istituzione di una Corte dei Conti, che sostituì la Camera della Sommaria.
Sul piano amministrativo, le prime riforme si ebbero con la legge dell’8 agosto del 1806, che portò alla formazione delle province del Regno, alla divisione del territorio in 495 circondari, 42 distretti e all’istituzione dell’Intendente. Quest’ultimo era a capo delle province ed esecutore delle disposizioni impartitegli dal ministero dell’Interno; nei fatti dirigeva l’amministrazione civile, finanziaria e l’alta polizia, controllava i comuni, faceva conoscere leggi e decreti e controllava l’applicazione di questi, inviando circolari e tenendo un fitto carteggio con i sottintendenti e i sindaci. Era affiancato da un Consiglio d’Intendenza, composto da tre membri nominati dal re e un segretario generale. Il Consiglio era competente del contenzioso amministrativo: per la prima volta la giustizia amministrativa veniva distinta da quella civile. Questo decentramento era reso possibile soprattutto dal miglioramento delle vie di comunicazione.
Si trattò, in effetti, di un “decentramento accentrato”, perché gli organi periferici (Intendenti, Sottointendenti, Consigli provinciali e distrettuali, Consigli comunali con i decurioni e sindaci) erano direttamente dipendenti dal governo centrale di Napoli, il quale, a sua volta, subiva direttamente le direttive politiche di Napoleone. Si potrebbe, per questo, definire “un sistema a fisarmonica”, in cui tutto partiva dal centro per arrivare nella periferia per poi ritornare al centro.
Napoli poi continuò a mantenere un ruolo di capitale, ma in un contesto storico diverso da quello del passato, e con un nuovo assetto amministrativo, più moderno e innovativo. Non bisogna dimenticare che la grande novità del Decennio fu proprio l’introduzione dello stato amministrativo.Tutto ciò però sembra profondamente contraddittorio, perché se da un lato Napoleone diffondeva nei Paesi conquistati gli ideali di libertà, dall’altro imponeva a questi un’inflessibile accondiscendenza (Cfr. P. Villani, Italia napoleonica, Napoli. 1978, pp. 117-133).
Novità vi furono anche nel campo dell’istruzione pubblica; i napoleonidi, con un decreto del 15 agosto 1806, stabilirono che: tutte le città, terre, ville, ed ogni altro luogo abitato del regno sono obbligati a mantenere il maestro per insegnare i primi rudimenti e la dottrina cristiana ai fanciulli e sono tenuti a stabilire una maestra per far apprendere, insieme con le necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere e la numerica alle fanciulle.
Lo stipendio del maestro dunque doveva essere a carico del bilancio comunale; lo Stato così si interessava direttamente dell’alfabetizzazione e della formazione laica dei cittadini, aprendo per la prima volta scuole primarie, che in passato erano state monopolio degli ordini religiosi. I vari provvedimenti nel campo dell’istruzione portarono nel 1811 alla creazione di un Direttore generale per il controllo delle attività didattiche e all’apertura di collegi e di licei provinciali. Murat, come Napoleone, si comportò da grande protettore delle lettere, delle scienze e delle arti; tanto è vero che fondò istituti di incoraggiamento e accademie. Sotto re Gioacchino, poi, si mirò a creare una perfetta osmosi tra erudizione e nuove discipline economiche; si guardò con ferma intenzione all’intersezione tra élites culturali, economiche e amministrative dello Stato. Vennero fondate testate giornalistiche importanti, utilizzate poi dal governo per diffondere notizie e fare opinione, attraverso documenti provenienti dalle amministrazioni o dalla statistica murattiana. Ricordiamo alcuni giornali: Il Monitore napolitano, il Giornale del Vesuvio e Il Corriere di Napoli.
Con lo Statuto di Bayonne del 1808, Napoleone pensò di uniformare l’arretrata Europa mediterranea al modello degli altri Stati napoleonici, presentando, nello stesso tempo, le carte costituzionali sia per il Regno di Napoli che per quello di Spagna. «Entrambe tenevano fermo sull’identità cattolica dei due Paesi e, quasi a controbilanciare l’abituale, netto primato conferito al potere esecutivo su quello legislativo, aggiungevano dei provvedimenti attenti alla specifica tradizione sociale e culturale dei regni: Napoleone tendeva così la mano a coloro che ancora esitavano a dare credito ai francesi, mostrando di assecondare le loro rivendicazioni e di esser pronto alla collaborazione» (A. De Francesco, Il naufrago e il dominatore: Vita politica di Napoleone Bonaparte, Vicenza 2021, p. 156). Nei primi anni di Regno, molti intellettuali preferirono non essere coinvolti in vicende politiche, invece, con l’arrivo di Murat le cose mutarono notevolmente. Infatti, alla guida dello Stato cominciò a collaborare anche il personale napoletano, diventando il vero protagonista di questo periodo nelle varie attività (catasto, statistica, discussioni sulle tariffe da applicare, le ripartizioni amministrative). Basti ricordare la partecipazione di alcuni intellettuali come Luca de Samuele Cagnazzi, Vincenzo Cuoco, Teodoro Monticelli, Pietro Colletta, Davide Winspeare e Giuseppe Zurlo. Questi uomini videro aprirsi impensate possibilità di fare carriera (esercito, ministeri, etc.) nel nuovo regime napoleonico e molti di loro diventarono la parte più importante del regno. Furono nei fatti utilizzati per risolvere gli antichi problemi e per adattare i Codici napoleonici alle peculiarità storiche del Regno di Napoli.
Una figura importante di questo ceto fu quella di Giuseppe Zurlo, che ricoprì una posizione di prestigio, divenendo Ministro degli interni. Il nome di Zurlo, assieme a quello di Davide Winspeare, sarebbe stato soprattutto legato alla legge sull’eversione della feudalità, che gli procurò l’odio degli ex-feudatari. La legge, seguendo il modello francese, soppresse tutte le giurisdizioni feudali, che venivano reintegrate al potere sovrano dello Stato; incamerò i beni feudali e i pesi tributari; abolì, senza indennizzo, tutte le prestazioni personali e i diritti proibitivi (i monopoli, i privilegi fiscali, le immunità); rese demaniale i fiumi e le acque correnti. Furono però riscattabili i “diritti reali” gravanti sulle terre, come recita l’art. 1 della Legge del 2 agosto del 1806, sull’abolizione della feudalità: La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili.
La legge però riconobbe alla nobiltà l’ereditarietà dei titoli e l’equiparazione della nobiltà agli altri cittadini ai fini legali e fiscali. L’eliminazione della feudalità significava dunque togliere dalle mani dei baroni il potere giurisdizionale e quello economico; significava nei fatti costruire uno stato moderno con la sua organizzazione amministrativa nelle province, con la sua rete di tecnici e burocrati (Intendenti, sottointendenti e sindaci). La legge scompaginò notevolmente l’assetto territoriale delle campagne del Regno; fu enorme la quantità di terreni resi disponibili, sicché fu necessario lasciare agli ex feudatari solo le terre legittime di loro proprietà, i cosiddetti beni allodiali.I Francesi studiarono minuziosamente tutta la storia giuridica delle campagne meridionali per poter portare a termine l’eversione della feudalità. Questo studio è conservato nella Biblioteca nazionale di Napoli e nell’Archivio di Stato di Napoli alla voce Bollettino delle Sentenze della Commissione feudale. La Commissione feudale esaminò e risolse, nel giro di poco meno di tre anni, ben 1395 vertenze. (Cfr. D. Winspeare, Storia degli abusi feudali, Tip. Trani, Napoli 1811). Venivano abolite le rendite e le prestazioni personali e giurisdizionali, prevedendo per queste ultime un indennizzo, e i diritti proibitivi. Il demanio feudale, sul quale i cittadini esercitavano gli usi civici, andò in parte ai baroni, mentre il rimanente venne assegnato alle province e ai Comuni, per essere poi «quotizzato» tra i cittadini più poveri. I baroni nei fatti persero alcune prerogative di origine medievale, ma la legge diede loro la possibilità di diventare proprietari dei loro ex-fondi feudali, senza perdere per questo il titolo nobiliare e la possibilità di trasmettere tali titoli in linea ereditaria, divenendo così signori incontrastati delle loro terre. La «quotizzazione» delle terre fu, però, lenta e, in alcuni casi, ostacolata dalla borghesia agraria e dal potere baronale; quest’ultimo nelle province non smise di compiere abusi. In realtà, un effettivo sradicamento della feudalità avrebbe potuto effettuarsi solo in tempi lunghi, con una lenta modificazione dei rapporti di produzione, dei contratti agrari e della struttura economica del Regno. In ogni caso, si ebbe la valorizzazione e il riassetto della proprietà, che ora veniva liberata dai vincoli feudali e diventava un capitale cedibile, che poteva essere valorizzata e venduta come proprietà privata. Il passaggio del potere dalla classe dirigenziale baronale alla borghesia agraria fu determinato dalla graduale liberazione della terra dai vincoli di servitù, promiscuità, usi civici ed altro, ai quali nell’antico regime la terra era sottoposta, perché considerata un bene libero e aperto a tutti. Per l’applicazione di questa riforma, avrebbe avuto un ruolo determinate il nuovo catasto geometrico, che sostituì quello Onciario, istituito da Carlo di Borbone nel 1741.
Per l’organizzazione del nuovo Stato, i Francesi mirarono alla formazione, nei vari settori (Acque e Foreste, Dazi di consumo, Poste, Contribuzioni dirette e Dazi indiretti), di una burocrazia moderna, con un personale qualificato per la valorizzazione delle risorse naturali sia del soprassuolo che del sottosuolo. L’esigenza di controllo del territorio da parte dei Francesi venne efficacemente sintetizzata dalla creazione di alcuni funzionari, che collaborarono alla creazione di una nuova politica di conoscenza e di controllo territoriale, organizzando vari organismi, come: il comparto delle Poste, la Società d’agricoltura, Società economiche, Società reale e l’Istituto di Incoraggiamento. Per questo Meriggi scrive: «Conoscere e controllare per trasformare dall’alto: la filosofia ispiratrice delle monarchie napoleoniche potrebbe forse sintetizzarsi in questo motto» (M. Meriggi, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Bologna, 2002, p.75). Si deve, quindi, necessariamente dire che questa filosofia dell’accentramento delle istituzioni statali portò sotto il profilo sociale e politico ad un avvicinamento tra il centro e la periferia, tanto che si è parlato di una modernizzazione passiva per il Mezzogiorno, perché si sviluppò grazie alle pressioni esterne e dall’alto e ciò non è avvenuto solo nel Decennio francese; insomma il meridione storicamente, quando è cresciuto, è cresciuto sempre nel quadro di una politica dirigista e accentratrice. In ogni modo, la strada dell’accentramento fu tentata più tardi anche da Ferdinando II per scavalcare i poteri locali, che erano stati scalfiti ma nient’affatto esautorati dall’eversione della feudalità. Il baronaggio comunque continuò ad esercitare un ruolo egemone nella società meridionale, perché, anche se fu distrutto come ceto, sopravvisse ancora nella lunga durata come forza sociale in grado di condizionare i rapporti produttivi e di conservare, soprattutto nelle campagne, i modelli di relazione e i rapporti politici del vecchio mondo feudale. Si deve dire che le riforme avvantaggiarono la borghesia terriera delle province, che però, pur essendo un cetoemergente, non si manifestò subito con una forte identità sociale e culturale, capace «di porsi come forza egemone, ma tendeva piuttosto a convivere in maniera compromissoria con le vecchie forze feudali e nobiliari e a saldarsi con esse in un fronte anticontadino». Questi personaggi della borghesia agraria meridionale, già presenti nel catasto onciario, come piccoli e medi proprietari terrieri, poi nel catasto francese, li ritroveremo nei censimenti del XIX secolo. Questa borghesia terriera arricchitasi con le opportunità datagli dall’eversione della feudalità, una volta presa coscienza dei loro interessi economici e politici sarà sempre più coesa e si farà sentire per difendere i suoi interessi, come nella rivoluzione del 1820-21.
I nuovi ceti di provincia, nei fatti, ereditarono i comportamenti politici che erano tipici del baronaggio. Infatti la «borghesia meridionale cresciuta all’ombra del feudo» (P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1962, p. 79) aveva ereditato senza rivoluzione o lotte i beni baronali e ciò «non sviluppò una forte identità di sé in quanto classe nuova, politicamente e idealmente» (P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia Meridionale cit. p. 6), per contrapporsi ai ceti cui subentrava; pertanto non fu in grado di esercitare una vera e propria egemonia sul piano sociale. I napoleonidi con le nuove riforme avevano dato l’illusione di aver sconfitto definitivamente il baronaggio, risolto i conflitti demaniali e, soprattutto, creato una piccola proprietà contadina, come si era consolidata in Francia. «Ma dieci anni, scrive Paolo Macry, sono pochi per costruire un nuovo stato e superare asimmetrie politiche e sociali che infiammano le campagne». I Napoleonidi, in ogni modo, lasciarono la possibilità di far politica anche alle classi nobiliari; infatti, per comprendere ciò basti analizzare la composizione del Parlamento napoletano, che veniva dotato di cento membri, equamente ripartiti tra i possidenti, i commercianti, cui venivano ad aggiungersi i tradizionali ordini d’antico regime: il clero e gli aristocratici. Questi ultimi, in ogni modo, vennero solo ridimensionati, mentre si affacciarono sulla scena dell’amministrazione i medi e i piccoli proprietari, provenienti, per lo più, dalla provincia. Napoli ora non era più l’unico centro politico-amministrativo-militare e intellettuale del Regno ad essa si affiancarono altre città, capoluoghi di provincia, come Bari, l’Aquila, Chieti. È importante osservare che con l’arrivo di Murat si ebbe un forte avvicinamento tra il governo centrale e la borghesia della provincia, ammortizzando così la forte rivalità esistente tra capitale e province.
Con l’ascesa al trono di Gioacchino Murat, la pressione di Parigi sul regno si rafforzò ancor di più con lo statuto di Bayonne del 20 giugno del 1808, in cui venivano fissati gli obblighi, e non la libertà, della nuova dinastia verso l’imperatore, certamente più duri rispetto a quelli imposti a Giuseppe (Cfr. G. Lefebvre, Napoleone, Bari 1991, pp. 507). Questi obblighi, finalizzati soprattutto alla politica militare francese, erano: 1. il versamento annuo di denaro a vantaggio del tesoro della corona imperiale; 2. il pagamento di tutti i debiti contratti con il governo francese ai tempi dell’occupazione di Giuseppe; 3. il denaro e truppe per le guerre; 4. la piena collaborazione al blocco continentale per la distruzione del commercio inglese; 5. la subordinazione degli interessi napoletani a quelli francesi. La riforma dei napoleonidi, forse la più importante, fu il riordinamento del sistema tributario e fiscale, con l’introduzione dell’imposta fondiaria, che, ispiratasi alla fisiocrazia, era in stretto rapporto con la legge sull’eversione della feudalità e con la costruzione e applicazione di un catasto moderno. La fondiaria era una tassa unica sulla proprietà ed era anche «fortemente perequativa in quanto sostituiva antiche imposte, le quali colpivano con una progressività all’inverso i più poveri, gravando sulla «testa» e sulle «braccia» (testatico, focatico, e «tassa d’industria»). Dal 1810, furono avviate altre contribuzioni, come la personale, che si ispirava al principio che non solo i proprietari dovessero pagare i tributi allo Stato. Questa tassa, che colpiva i capifamiglia esclusi gli indigenti, portò alla riduzione della fondiaria. Nel 1811 poi fu istituita la patente, che colpiva tutti coloro «che esercitavano commercio, industria, mestiere o professione».
Dopo pochi mesi di regno, i rapporti tra Gioacchino Murat e Napoleone divennero subito tesi; di fatto Napoleone contestava la mancata applicazione dello Statuto di Bajonne e per creare un clima di distensione, a favore di Murat, intervenne l’ambasciatore francese a Napoli. Il Regno di Napoli era importante per Napoleone, perché oltre a essere un luogo di frontiera era anche la porta dell’Europa al commercio inglese. Dal Regno di Napoli, che aveva una posizione geografica di crocevia, i napoleonidi avrebbero potuto meglio controllare e contrastare la supremazia navale britannica nel Mediterraneo. Il possesso dei porti avrebbe consentito di ricostruire la flotta che Nelson aveva distrutto nella battaglia sul Nilo, e una riorganizzazione in questo senso era diventata ancora più urgente in seguito alle recenti perdite subite a Trafalgar. Napoleone non aveva abbandonato l’idea di ritentare l’impresa in Egitto dopo il fallimento del 1798. Messe al sicuro le fondamenta del progetto imperiale sul territorio europeo, l’Italia meridionale era destinata a diventare “testa di ponte” per la conquista del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Nessuno di questi ambiziosi piani fu realizzato, ma il regno continuò ad avere un ruolo cruciale nel blocco delle merci britanniche e nel dare ospitalità agli eserciti imperiali durante le campagne di guerra. Ma la crisi tra i due cognati toccò l’apice quando Napoleone richiese a Murat truppe e forniture militari, che quest’ultimo intendeva utilizzare per la conquista della Sicilia, ancora nelle mani del Borbone e degli Inglesi. Di fronte al rifiuto di Murat, l’Imperatore reagì ricordando al cognato il suo stato di vassallaggio. Per questi motivi, la politica di Napoleone, secondo Pasquale Villani, può dirsi contraddittoria: perché se da un lato Napoleone aveva esportato gli ideali della rivoluzione e l’eversione della feudalità, dall’altra, invece, concedeva i vari regni satelliti della Francia ai parenti attraverso un giuramento di fedeltà che ricordava l’investitura feudale. Murat più tardi pensò anche all’indipendenza del Regno di Napoli e perfino all’unificazione, sotto il suo regno, della penisola, occupando i “dipartimenti italici”. Per far ciò ruppe con Napoleone e trattò con l’Austria, ma questo progetto, ambizioso e pericoloso, fallì e Murat ritornò a combattere e a morire per Napoleone. «Ma la storia è fatta, scrive sempre Pasquale Villani, anche di illusioni e di fallimenti; e la campagna murattiana, il proclama di Rimini, la morte stessa di Murat furono momenti non insignificanti della storia del Mezzogiorno e di tutta l’Italia». In effetti, gli elementi del rinnovamento politico e socio-economico del Decennio francese sarebbero stati visibili solo nel lungo periodo.
Bisogna dire che, nel bene o nel male, i Napoleonidi ripresero e migliorarono l’azione già avviata dal riformismo borbonico, anche se il rinnovamento fu possibile solo nel diverso contesto internazionale e grazie ad un avvicendamento imposto dalla forza dell’esercito di occupazione. Di fronte alle armi francesi la società meridionale diede segni di insofferenza con la ricomparsa del brigantaggio e la nascita della Carboneria, che rappresentano i segni di malessere della società di fronte all’opera di razionalizzazione non facilmente gestibile. Permanevano nella mentalità e nell’ideologia elementi dell’antico regime, senza dimenticare l’intenso rapporto con la Chiesa.
All’indomani della cacciata dei francesi si rafforzò anche la criminalità organizzata e il suo consolidamento va inquadrato nel periodo immediatamente postunitario, in quanto le organizzazioni banditesche trassero giovamento dal vuoto di potere che la congiuntura politica aveva creato.

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