Saggio breve di Giovanni Capurso
Parole chiave: Gobetti, Fiore, autonomia, arretratezza, stampa d’opinione.
Con la marcia su Roma alle porte, il periodico gobettiano La Rivoluzione liberale era riuscita ad attirare i migliori intellettuali meridionali dell’epoca, facendosi portavoce delle grandi questioni irrisolte del Sud. Lo testimonia la prima lettera del 7 ottobre 1922 inviata da Tommaso Fiore a Piero Gobetti, con un fascismo che ormai aveva preso quasi ovunque il sopravvento. L’intellettuale pugliese invitò La Rivoluzione liberale a prendere in esame il “problema dell’autonomia amministrativa” di fronte alle difficoltà del momento politico e al periodico rappresentato dalla concezione “reazionaria dello Stato” dei nazionalisti e fascisti. Con parole che sanno di frustrazione così scrisse a Piero:
Qui da noi in provincia si è persuasi che nessun’altra amministrazione può restare al potere più di due mesi, se non piega il collo ai voleri del Governo, se non segue cioè un certo indirizzo politico, o i cenni del comm[issario] tale, pezzo grosso del ministero degli Interni (a tutti i ministeri), del deputato talaltro. Per amministrare quindi bisogna essere delle perfette canaglie o almeno chiedere l’alto onore di essere ritenuti tali. Questo è l’alfabeto della nostra vita pubblica meridionale.
Ora io tempo che quel miglioramento della funzione dell’autorità tutoria, di cui nel comunicato, non riesca a danno anche maggiore. Che cosa si vuole? I tempi sono tristi e nazionalisti e fascisti parlano apertamente dei poteri reazionari dello Stato, cioè che lo Stato che non sa reagire contro i cittadini che non la pensano come lui non è uno Stato. Siamo dunque al paterno regime austriaco. Io spero e mi auguro che “La Rivoluzione Liberale” vorrà riprendere in esame il problema dell’autonomia amministrativa. Sarà un ammonimento vano, nella storia nulla è perduto (Gobetti, 2003: 342).
A circa due mesi dalla marcia su Roma, Fiore si era dimesso da sindaco della sua città, Altamura, in provincia di Bari, dal novembre del ’20 a capo di un’amministrazione sostenuta principalmente dal movimento dei Combattenti. Non sorprende dunque la sua specifica competenza, che ebbe modo di dispiegarsi interamente nella concreta esperienza di governo locale, ricca di contrasti iniziative innovative, a favore non solo dei contadini senza terra, ma anche della sezione più attiva della media borghesia agraria, della piccola proprietà contadina e della cooperazione (Cfr. V. Fiore, 1995, p. 329).
Sempre l’intellettuale pugliese, infatti, scrisse a un suo corrispondente che “subito dopo la Marcia fu una corsa pazza affannosa di tutti gli elementi locali, di tutti gli uomini, di tutti i partiti, di tutte le amministrazioni a chi prima passasse nel fascio, a chi vantasse le sue benemerenze passate verso di esso, a chi ne accettasse il controllo e la protezione” (T. Fiore,1980: 127).
Un esempio in Puglia, come notò lo stesso Fiore, riguardava il movimento combattentistico. Dopo diversi decenni, lo stesso ricorderà in una lettera indirizzata a Gaetano Arfé, in quel periodo direttore dell’“Avanti!”, i tormenti di quegli anni per le malefatte di politici scaltri e opportunisti:
Questa esperienza la feci io allorché, tornando dalla prigionia nell’inverno del 1922, aprii una Sezione di Combattenti e contemporaneamente condussi una indagine minuta sulle malefatte dei servi dell’onorevole Caso, un delinquente capace di ogni mala azione. L’On. Salvemini mi avvertì di non scrivere nulla se non dopo severa indagine ed esatta esposizione.
Per Fiore la battaglia per l’autonomia regionale poteva sottrarre il Mezzogiorno alle sue condizioni di arretratezza civile e politica solo fondandosi su una consapevole azione autonomista “dal basso”, dalle masse popolari, alla luce anche della lotta di classe. Alle classi medie, infatti, alle classi “così dette intellettuali”, affidava il compito di condurre nel paese una lotta energica per portare a compimento una ricostruzione dal basso della storia italiana e della società nazionale. In questa fase restava comunque irrisolto il problema di quali forze e quali alleanze avrebbero reso possibile un nuovo assetto della direzione politica e una nuova collocazione a livello locale (Nassisi, 1995: 303).
Punto di partenza della collaborazione tra Piero e i meridionalisti fu la pagina di Vita meridionale, richiesta dallo stesso editore torinese il 5 novembre 1924 a Fiore:
Contro la sua collaborazione assidua per la pagina meridionale. Mandami per il numero che la inauguri un articolo riassuntivo sull’opera del fascismo nel sud. Bada che questa pagina la dovete fare voi: tu, Dorso, Bellieni, Isnardi, Tedeschi, Azimonti e gli altri amici meridionali. Se non riuscirà una cosa grossa sarà colpa vostra […]. Spero che si faccia una cosa degna. Rispondimi subito […] e manda scritti. Fa lavorare Perrini.
Dopo la pubblicazione dell’“Appello ai meridionali”, del 2 dicembre ’24 curata da Guido Dorso una postilla attribuibile a Gobetti precisava: “su queste basi Rivoluzione Liberale dedicherà ogni numero una pagina alla Vita meridionale, coi più importanti collaboratori”.
La rubrica nasceva con l’ambizioso obiettivo di poter diventare un punto di riferimento per “tutti gli scrittori liberali e liberisti dell’Italia Meridionale, e per gettare le basi di un’impostazione severa e calzante della questione meridionale” (Dorso, 1992: 24-30).
Lo scopo della pagina non sarebbe stato semplicemente quello di informare, ma di chiamare a raccolta forze intellettuali e morali intorno a una questione che andava affrontata nuovamente, riformulata, condotta al di là degli steccati ideologici e geografici in cui si ritrovava ancora racchiusa (Ciccone, 2020: 27).
Nelle intenzioni dei promotori della rubrica si trattava di fare del meridionalismo una questione sulla quale aprire un dibattito nazionale, dalla portata più ampia rispetto a quanto aveva potuto garantire poche personalità illustri, ma isolate. Era una via che lo stesso Gaetano Salvemini con la sua attività pubblicistica su “L’Unità” aveva iniziato a tracciare (Ibidem).
Tuttavia, dopo i primi interventi di Mario Vinciguerra, Giovanni Carano Donvito, Giuseppe Stolfi, Giuseppe Gangale e Giuseppe Cappa, l’iniziativa stentava a decollare e lo stesso Gobetti non sembrava soddisfatto. In una lettera del 12 gennaio 1925 osservava con la consueta schiettezza:
La pagina meridionale languisce per colpa vostra. Noi possiamo fare qui a Torino la parte generale, campagna liberista, storia del problema ecc.; ma voi dovete darci articoli regionali, inchieste locali, episodi, dati. Due colonne ogni numero. Tu consoci le Puglie benissimo. Non puoi mancarmi. Fa collaborare Castiglione, Perrini e gli altri.
I contributi dei meridionalisti liberali erano tutti orientati sul doppio binario delle politiche di invenstimenti e gestionali legate alla terra. Con una certa ironia il meridionalista Guido Dorso, scrivendo a Tommaso Fiore, evidenziò come il fascismo avesse improvvisamente “risolto” la questione meridionale. Le risposte alle grandi e ataviche questioni invocate dai meridionalisti legate a un’“agricoltura che ancor oggi si esercita e si svolge con sistemi preadamitici” vennero accantonate per far posto ad altre che andarono a favorire gli interessi degli industriali e degli affaristi concentrati nei grandi centri urbani.
A tal proposito, ben si precisava su un articolo della rubrica di La Rivoluzione liberale, che il “fascismo, con non minore semplicismo dei passati Governi, non ha visto nella questione meridionale che un mero fatto di lavori pubblici e, più specialmente, un mero fatto i viabilità, di mezzi di comunicazione” (Capa, 1925: 140).
Ancora una volta la questione meridionale si trovò a essere “risolta” ancor prima di essere “compresa”(Ciccone, 2020: 44). L’atavico problema dell’arretratezza del Meridione, fecero notare i principali collaboratori della rubrica Vita meridionale del periodico gobettiano, non poteva che essere affrontato, anche con l’avvento del fascismo, attraverso una massiccia opera di finanziamenti governativi, ma con un ripensamento delle cause dell’arretratezza del Mezzogiorno e soprattutto evitando che si liberassero le energie migliori del territorio. Una volta al potere, il fascismo, verso il tema dell’emancipazione economica del Mezzogiorno avrà un approccio paternalistico, secondo cui ogni azione correttiva dovesse arrivare direttamente dallo Stato, replicando una tradizione lunga quanto la storia dell’Italia unita. Invece era necessario “rimuovere le cause del disagio economico, dell’indigenza tra le popolazioni meridionali, bisogna cioè valorizzare la terra. E la terra si valorizza, distruggendo il latifondo per lo meno mediante l’enfiteusi obbligatoria” (Ivi: 144), concedendo dunque la terra e le risorse a coloro davvero interessati a sfruttarle, nonché attraverso l’istruzione tecnica e facilitando gli scambi col Nord e le esportazioni. Non sarebbe mai potuto sorgere nessun soggetto sociale politicamente ed economicamente maturo se non eliminando alla radice le cause dello stato di arretratezza delle masse delle Mezzogiorno, “sì che al contadino si dia la possibilità della sicurezza del pane quotidiano e sì che possa sorgere una piccola borghesia agraria e indipendente” (Ibidem).
Parallelamente allo smantellamento delle seppur blande conquiste del proletariato, con tutti i mezzi coercitivi che lo squadrismo fascista e il sostegno dei grandi proprietari potevano assicurare, furono sciolti numerosi consigli comunali con i più svariati pretesti, laddove la presenza di organizzazioni socialiste, ma anche cattoliche e repubblicane non ancora sottomesse, era più forte e potenzialmente capace di esercitare una minima opposizione (Ponzano, 2001: 317-318).
La resistenza delle comunità rurali non fu assente, ma si attivò in maniera disorganica e si disperse nei rivoli e di piccoli gruppi locali, come avvenne nel periodo del “biennio rosso”.
La stessa stampa d’opinione, soprattutto delle forze politiche emergenti, per timore di ripercussioni divenne sempre più accondiscendente e iniziò ad assumere una difesa di vetuste posizioni di privilegio e di dominio, rapportandosi nei confronti della violenza squadrista con timorosa e complice acquiescenza. Con la rapida ascesa del fascismo nei giornali, ridotti a fogli d’ordine, scomparvero quasi del tutto i fermenti e le aspirazioni che in Piemonte, come in tutta Italia, avevano mobilitato grandi masse con un coinvolgimento e una intensità fino ad allora inediti (Cioffi 1984: 23).
Nell’estate del 1924 Gramsci aveva già lasciato Torino da due anni, i giornali non erano ancora fascistizzati anche se accanto ai tradizionali La Stampa, Gazzetta del Popolo e al cattolico Momento, erano scomparsi altri fogli, perlopiù caduchi, tutti di fervido sostegno al nuovo governo. L’astro di Piero, visto come un baluardo dell’antifascismo, brillava ancora alto. L’anno seguente vi sarà un’ulteriore svolta con la chiusura dei giornali di opposizione, compresa La Rivoluzione liberale. L’11 novembre 1925, nella nota lettera in cui ne dà notizia a Dorso, Piero dichiarerà coraggiosamente che “in quanto a vittoria spesso si sta meglio coi vinti”, con coloro che nelle circostanze della sconfitta scorgono ancora la validità delle loro idee (G. Dorso, 1992: 57).
Bibliografia
Capa, L’eterno errore, “La Rivoluzione Liberale”, 15 febbraio 1925, in Vita meridionale.
Cioffi (a cura di), La stampa democratica pugliese nel primo e nel secondo dopoguerra, Istituto Gramsci, Bari 1984.
Dorso, Carteggio (1908-1947), a cura di Bruno Ucci, introduzione di Antonio Maccanico, Edizioni del Centro Dorso, Avellino 1992.
Fiore, “Tra Altamura e Torino (Fiore e Gobetti)”, in AA. VV., Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud, a cura di Pietro Polito, Biblopolis, Roma 1995.
Fiore, Scritti politici 1915-1926, a cura e con introduzione di F. Grassi, De Donato, Bari 1980.
Gobetti, Carteggio 1918-1922, a cura di E. Alessandrone Perona, Giulio Einaudi editore, Torino 2003.
Nassisi, “Gobetti e Fiore”, in AA. VV., Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud, a cura di Pietro Polito, Biblopolis, Roma 1995.
Ponzano, “Fascismo e autonomie locali”, a cura di M. Palla, Lo Stato fascista, La Nuova Italia, Firenze 2001.