Riceviamo e pubblichiamo il saggio breve di Michele Eugenio Di Carlo

Riassunto: Le Lettere meridionali di Pasquale Villari, pubblicate dall’ “Opinione” di Torino, pongono all’attenzione le gravissime responsabilità dei governi conservatori liberali per il modo in cui avevano gestito l’annessione delle province del Mezzogiorno. Con Villari nasce la questione meridionale che costringe il conservatorismo liberale al potere ad affrontare con analisi politiche, economiche e storiche i condizionamenti classisti e gli errori di fondo che avevano seriamente compromesso il breve percorso unitario. Il pensiero politico di Villari viene subito ripreso dai giovani conservatori toscani Franchetti e Sonnino in un saggio pubblicato nel 1877 in due volumi La Sicilia nel 1876, il primo scritto da Franchetti sulle condizioni amministrative e politiche, il secondo da Sonnino sulle infelici condizioni dei contadini siciliani.

Parole chiave: Villari, questione meridionale, Franchetti, Sonnino, meridionalismo liberale.

1. Le “Lettere meridionali” di Pasquale Villari
Il meridionalismo moderato liberale, ovvero quel modo di trattare le questioni sorte nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia mai in maniera realmente alternativa alle politiche governative della seconda metà dell’Ottocento, vede la luce nel 1875, quando Pasquale Villari scrive per il giornale di Torino l’ ”Opinione” le note Lettere meridionali (Villari,1875).
Villari, nato a Napoli nel 1827, allievo del Puoti e del De Sanctis, è stato docente di Storia all’Università di Pisa nel 1859 per poi proseguire la carriera universitaria a Firenze dal 1865 al 1913; deputato alla Camera negli anni Settanta, senatore e poi ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1891-92. Il suo pensiero politico si può ricondurre in sintesi ad un conservatorismo volto alle riforme in campo sociale con particolare attenzione alle condizioni socio-economiche delle popolazioni del Mezzogiorno. Un riformismo quindi liberale conservatore che, data l’evidente crisi della Destra storica a metà degli anni Settanta, tenta una possibile via per respingere le tesi clericali e socialiste che avanzano e che si fanno largo in ampi strati della popolazione, in particolare del Mezzogiorno.
È opinione del tutto consolidata che la “questione meridionale” sbocci con le Lettere meridionali di Villari. Ed è lo storico contemporaneo Piero Bevilacqua a dare sostanza a questa tesi, spiegandola con una duplice motivazione:

La prima è che la “questione meridionale” non si intende propriamente la storia della società meridionale in età contemporanea, quanto la storia delle analisi, dei dibattiti, delle politiche relative ai problemi del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. È la vicenda di una tradizione di pensiero, di culture, di forze politiche che, all’indomani dell’Unità d’Italia, posero al centro della riflessione il Sud come “questione” (Bevilacqua, 2015:15).

Nella seconda motivazione, teorica ma non meno importante, è Villari che per primo vede la “questione meridionale” non come un problema regionale, ma come “il cuore stesso della fragilità della nazione Italia appena costruita” (Ibidem), individuandone i limiti e gli errori di fondo.
Nel 1875 i tempi erano ormai maturi affinché le forze liberali conservatrici al potere cominciassero a riflettere, mediante realistiche analisi storico-politiche, sulle proprie gravissime responsabilità in merito alle condizioni disagiate del Mezzogiorno. Un Mezzogiorno, le cui problematiche erano state affrontate unicamente con gli strumenti della repressione violenta con la precisa volontà politica di conservare privilegi feudali di casta alla borghesia agraria, relegando nel limbo dei tempi passati le masse contadine e bracciantili condannate a uno stato di profonda degradazione umana e sociale, mantenendo costantemente in essere un regime autoritario, totalmente centralistico, fortemente censitario e elitario.
Già nel saggio pubblicato nel settembre del 1866, Di chi la colpa? O sia la pace e la guerra (cfr. Villari, 1979), Villari vede un processo unitario avvenuto su base elitaria, privo di una vera coscienza nazionale e del consenso delle masse, in una condizione di totale dominio politico-militare del Piemonte, che più tardi Guido dorso definirà “conquista regia”.
Lo studioso Francesco Barra evidenzia, tra le motivazioni che “indussero Villari ad approfondire le proprie riflessioni sulla natura e sui limiti, spirituali e civili prima ancora che materiali, della Nuova Italia postrisorgimentale”, il doloroso tentativo della Comune di Parigi del 1871, da cui emergeva nettamente una questione sociale a livello europeo, oltre i deludenti risultati elettorali del marzo 1874 che stavano consegnando il Mezzogiorno alla Sinistra storica, penalizzando la sua Destra (Barra, 2016: 41)
Secondo lo storico Rosario Villari, l’analisi critica perfezionata dal suo omonimo

investiva l’insieme dei rapporti tra il Mezzogiorno e lo Stato, la particolare funzione immobilistica che le istituzioni avevano assunto nel Mezzogiorno (dove avevano confermato, al di là della scossa rivoluzionaria antiborbonica, vecchi privilegi, un arretrato ordinamento sociale, costumi semifeudali) (Villari R., 1966:107).

Anche per Rosario Villari “era la prima, profonda ‘autocritica’ del liberalismo risorgimentale” (Ibidem), ripresa e messa a punto poi scientificamente nell’inchiesta sulle condizioni della Sicilia dei toscani Franchetti e Sonnino. Pasquale Villari legava, indissolubilmente e sostanzialmente, la questione sociale delle popolazioni rurali del Mezzogiorno a quella agraria e demaniale. Il contadino meridionale, il cui sangue era stato versato a fiumi durante la guerra civile definita riduttivamente “brigantaggio”, non era stato mai degnato di attenzione, “di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni”. La vendita dei beni ecclesiastici, requisiti dopo l’Unità, e dei beni demaniali, per lo più usurpati dai “galantuomini” della classe borghese al potere, era stata l’ennesima occasione persa per la costituzione di una piccola proprietà contadina che avrebbe dato respiro sociale e dignità all’oppresso mondo contadino, tanto che “quelle terre, in uno o in un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietari”. L’autore concludeva amaramente che le condizioni da “schiavi della gleba” dei contadini non erano migliorate dopo l’Unità d’Italia, addebitando per primo la responsabilità ai governi liberali che avevano lasciato la classe dei proprietari terrieri “padroni assoluti di quella moltitudine”. Una classe, quella della borghesia agraria, che era diventata la classe governante nel Mezzogiorno e i cui interessi erano tutelati a scapito delle popolazioni rurali (cfr. Villari, 1878).
Il 4 novembre 1875, un giovane, appena laureato in Giurisprudenza Giustino Fortunato, rispondeva commosso alla lettera che Pasquale Villari gli aveva inviato il 25 ottobre; una lettera in cui lo storico napoletano dimostrava di apprezzare la relazione sulle società cooperative di credito letta il 5 maggio dello stesso anno da Fortunato durante l’incontro dell’Associazione Unitaria Meridionale (Fortunato, 1978: 8-11).
In relazione ai dubbi di Villari sulle banche popolari del Mezzogiorno, Fortunato rispondeva esprimendo liberamente il suo giudizio sulla classe altolocata del Mezzogiorno: «Nelle province meridionali manca del tutto una classe superiore […]; manca cioè un’aristocrazia, una nobiltà qualunque. Essa è tutta racchiusa in Napoli, ed è la più stupida aristocrazia di questo mondo». Proseguendo, proseguiva nel tracciare il profilo inglorioso della borghesia dominante:

[…] e così come la borghesia è fotografata dal conte Alfieri e dal Franchetti, sarebbe vano sperare che si mettesse a patrocinare la causa de’ poveri contadini, su’ quali pesa con tutto il rigore del più crudo e disumano potere, con tutta la sfacciataggine della più vile e sudicia usura (Ibidem).

In definitiva, in questa lettera il giovane Fortunato accennava ai temi che avrebbero caratterizzato il suo futuro impegno di politico e di pensatore illuminato: la critica alla classe dirigente meridionale e alle politiche dei governi di Destra e di Sinistra, la difesa degli interessi negati ai contadini, non rappresentati in Parlamento perché non aventi diritto al voto.
Non mancava di esprimere un giudizio particolarmente negativo alla Sinistra Storica da poco tempo salita al potere: “La sinistra meridionale non è radicale, non è progressista: è democratica a vantaggio dell’unica classe che rappresenta, l’alta e la bassa borghesia”. Un giudizio tale da non poter sperare che “i ministri napoletani” potessero “mai votare una legge agraria o il suffragio universale” (Ibidem).
In ultimo, onorato della lettera di Villari, Fortunato si impegnava a sostenere il politico napoletano riguardo “ad una vera propaganda a pro’ delle classi povere del Napoletano”. Iniziava un rapporto che sarebbe durato tutta la vita e che avrebbe fatto del Fortunato l’erede della tradizione meridionalista conservatrice, inaugurata da Villari, padre riconosciuto di quella tradizione.

2. Franchetti e Sonnino, meridionalisti conservatori toscani
Le Lettere meridionali di Pasquale Villari, pubblicate nel 1875 dall’“Opinione” di Torino, avevano quindi per la prima volta, in maniera decisa, posto l’accenno sulle gravissime responsabilità dei governi conservatori liberali per il modo in cui avevano gestito, nei primi quindici anni del Regno d’Italia, l’annessione delle province del Mezzogiorno. Una conquista avvenuta – come detto – utilizzando mezzi repressivi violenti contro le rivolte contadine e bracciantili, nel riuscito tentativo di conservare privilegi semifeudali alla borghesia terriera, detentrice di estesi latifondi in gran parte usurpati.
Con Villari nasceva la questione meridionale e con essa “la storia delle analisi, dei dibattiti, delle politiche relative ai problemi del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese” (Bevilacqua, 2016: 15), costringendo il conservatorismo liberale al potere ad affrontare con analisi serie i condizionamenti classisti e gli errori di fondo che avevano seriamente compromesso il breve percorso unitario. Un percorso sempre più fragile nel momento stesso in cui la Destra storica stava perdendo il potere e avanzavano prepotentemente, soprattutto nel Mezzogiorno, le sollecitazioni clericali, socialiste, anarchiche.
Il pensiero politico di Villari veniva subito ripreso dai giovani conservatori toscani Franchetti e Sonnino con un saggio pubblicato nel 1877 in due volumi: La Sicilia nel 1876 (Franchetti & Sonnino, 1877), il primo scritto da Franchetti sulle condizioni amministrative e politiche, il secondo da Sonnino sulle infelici condizioni dei contadini siciliani.
Leopoldo Franchetti era nato a Livorno nel 1847 da una benestante famiglia di origine ebraica. Si era laureato in Legge nel 1870 a Pisa, dove aveva incontrato Sonnino e aveva ricevuto gli insegnamenti di Pasquale Villari. Dopo l’inchiesta sulla Sicilia del 1876, fondava nel 1878 insieme a Sonnino la rivista “Rassegna settimanale”. In seguito, nel 1910, insieme a Giustino Fortunato fondava l’“Associazione per gli interessi del Mezzogiorno”, presiedendola fino alla morte avvenuta nel 1917.
Sidney Sonnino nasceva nello stesso anno a Pisa, oltre che cofondatore con Franchetti della “Rassegna settimanale” di Firenze, fondava nel 1901 “Il Giornale d’Italia”. Sarà eletto ininterrottamente dal 1880 al 1913 alla Camera dei Deputati dalla XIV alla XXIV legislatura, svolgerà le funzioni di Sottosegretario di Stato al Ministero del Tesoro nel 1889, di ministro delle Finanze nel biennio 1893-94, di ministro del Tesoro dal 1894 al 1896, di Presidente del Consiglio dall’8 febbraio al 27 maggio 1906 e dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910, di ministro dell’Interno e, più volte, di ministro degli Affari Esteri dal 1914 al 1919. Sarà nominato senatore il 3 ottobre 1920, due anni prima della morte avvenuta nel 1922 (scheda Sonnino, Archivio Senato della Repubblica).
Il viaggio di Franchetti e Sonnino in Sicilia, al fine di studiare sul campo le condizioni sociali, politiche e amministrative, nonché i rapporti tra mafia e poteri locali, era iniziato dopo che con legge del 3 luglio 1875 era stata costituita una Giunta parlamentare d’inchiesta al fine di indagare sullo stato della Sicilia. I risultati della Giunta erano stati presentati il 3 luglio 1876 dal deputato Bonfandini (relazione della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia, 1876). Il dibattito politico, precedente e successivo, alla relazione sull’inchiesta aveva assunto toni estremamente aspri con la Sinistra parlamentare che colpevolizzava la Destra per non aver adottato le politiche necessarie a sanare gli squilibri e le disuguaglianze del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, privilegiando il mantenimento di un sistema feudale agrario e determinando una questione sociale che aveva raggiunto livelli estremi. Ma più dell’inchiesta parlamentare erano le relazioni di Franchetti e di Sonnino a cogliere la vera natura della questione agraria e demaniale e della mafia nei suoi intrecci col ceto politico ed economico dominante.
Franchetti e Sonnino avevano, più del loro maestro Villari, focalizzato l’attenzione sulla questione meridionale, mettendo a fuoco fenomeni socio-politici quali “anarchia delle classi dirigenti, ribellioni contadine, resistenze regionalistiche, larga influenza ideologica del clero”, in un contesto sociale dove l’ostacolo primario allo sviluppo della società era rappresentato dall’assoluto predominio del “ceto agrario parassitario e usuraio”, nei riguardi del quale i governi liberali del primo quindicennio unitario avevano operato “ora piegandosi al compromesso ora svolgendo una politica puramente repressiva” (Villari R., 1966: 119).
Franchetti e Sonnino sono stati portatori di un progetto politico riformistico, pur in un contesto pienamente e consapevolmente conservatore. Un progetto destinato a non produrre effetti nella realtà socio-economica del Mezzogiorno, nonostante Sonnino avrebbe rivestito in seguito importanti incarichi governativi in qualità persino di presidente del Consiglio dei Ministri.
Infatti Antonio Gramsci, in Alcuni temi sulla quistione meridionale del 1926, scriveva che il progetto di Sonnino e Franchetti aveva avuto l’aspirazione di

creare nell’Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse […] da “opinione pubblica” e limitasse i crudeli arbitrii dei proprietari da una parte e moderasse l’insurrezionismo dei contadini poveri dall’altra (Gramsci, 2005: 182).

Il grande intellettuale si spinse ad affermare che il “piano governativo di Sonnino e Franchetti non ebbe neanche l’inizio di una attuazione” (Ibidem: 183), spiegandone lucidamente i motivi nel contesto della relazione dei rapporti tra Nord e Sud in riferimento alla particolare organizzazione dell’economia nazionale e dello Stato, “tale per cui la nascita di una classe media diffusa di natura economica” e quindi di una “borghesia capitalistica diffusa” era “resa quasi impossibile” (Ibidem). Per Gramsci

ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto (Ibidem).

Gramsci riteneva che i governi liberali non avevano avuto altro obiettivo che conservare quel “mostruoso blocco agrario” che aveva funzionato da intermediario e da “sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche”. Non rilevava all’interno di quel sistema “nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi”, se non al di fuori del Mezzogiorno, nei “gruppi politici agrari conservatori, specialmente della Toscana, che nel Parlamento erano consorziati ai conservatori del blocco agrario meridionale” e di cui facevano parte Franchetti e Sonnino, definiti benevolmente “borghesi intelligenti”, spaventati dallo spettro dell’anarchismo che Bakunin rappresentava allora nel Mezzogiorno (Ibidem: 181-182).
Il politico sardo riteneva che al di sopra del “blocco agrario” esistesse un “blocco intellettuale”, indicandone quali esponenti di spicco Giustino Fortunato e Benedetto Croce. Infatti, nel Mezzogiorno, accanto alle estese proprietà latifondiste, esistevano circoli ristretti di grandi intellettuali, ma non una diffusa rete di intellettuali medi. E non esisteva, oltre la casa editrice Laterza e la rivista La Critica, una rete di piccole e medie riviste e case editrici tali da favorire lo sviluppo della piccola e media intellettualità. Le tematiche meridionaliste degli intellettuali medi del Mezzogiorno trovavano accoglienza nelle riviste del centro e del nord Italia: le fiorentine Voce e Unità, l’Azione di Cesena ad orientamento democratico cristiano, le riviste liberali la Patria di Bologna e l’Azione di Milano di Borrelli, la Rivoluzione liberale fondata da Piero Gobetti. Tuttavia, secondo Gramsci, Fortunato e Croce erano i “supremi moderatori politici e intellettuali di tutte queste iniziative”, ottenendo che la “impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria” (Ibidem: 184-185). Nella sua relazione Franchetti aveva ammesso il fallimento del governo e il suo totale cedimento ai poteri locali, legittimi e illegittimi:

In un paese dove niuno crede che le leggi siano superiori a tutti e per tutti uguali, e dove è convinzione generale che la loro applicazione dipenda dalla autorità dei potentati locali, ogni concessione che venga fatta ribadisce l’universale credenza (cfr. Franchetti, 1877).

Sul ruolo dei deputati siciliani, l’intellettuale toscano era ancora più drastico, parendogli che avessero “dai loro elettori il mandato, più che di far nuove leggi, di procurare che siano fatte eccezioni a quelle in vigore” (Ibidem).
Sonnino, da parte sua, aveva focalizzato la sua relazione (Sonnino, 1877) sulle disperate condizioni delle masse rurali del Mezzogiorno, in un contesto sociale che non aveva mai spezzato il legame feudale che costringeva il contadino a legarsi alla terra e al padrone, laddove, invece, persino in Irlanda nel 1870, con il Land Act erano stati assicurati ai contadini i piccoli appezzamenti di terreno in cui lavoravano. L’eversione della feudalità in Sicilia era avvenuta nel 1812, sei anni dopo la sua promulgazione nel Regno di Napoli da parte degli invasori francesi, ma, come giustamente scriveva Sonnino,

l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale, appunto perché i feudi […] furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni: onde al legame tra il coltivatore e il suolo, che prima era costituito dalla stessa servitù feudale, non si sostituì come altrove l’altro vincolo della proprietà, ma invece quel legame fu semplicemente rotto, e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti, e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima per effetto della propria miseria (Villari R., 1966: 136).

3. Sul fallimento del meridionalismo classico
Il pensiero sociale riformistico di Villari, Franchetti e Sonnino, nato in un ambito istituzionale e ideologico condiviso, quello del liberalismo conservatore sabaudo, se aprirà la strada a studi e inchieste di studiosi, economisti e sociologi, non avrà mai quel respiro politico forte per cambiare la triste realtà delle popolazioni meridionali e del Mezzogiorno più in generale.
Guido Dorso, qualche decennio più tardi, coglierà con queste parole il vano tentativo dei riformisti conservatori liberali:

Invano Pasquale Villari, Franchetti, Sonnino e Fortunato sognano il sorgere di una nuova classe dirigente meridionale sul terreno dello Stato storico. La soluzione è assurda, perché il problema non è ancora nemmeno percepito dagli stessi interessati e la borghesia terriera ha inventato l’arma definitiva: il trasformismo (Dorso, 1986: 26-28).

Nel riflettere oggi sui limiti politici del meridionalismo liberale classico, evitando le “pericolose derive di carattere localistico e territoriale” (Lucchese, 2024), Salvatore Lucchese, docente di Storia e Filosofia presso la Scuola Militare “Nunziatella”di Napoli, scrive dello sconforto di Pasquale Villari per gli scarsi risultati ottenuti, nonostante avesse dedicato sforzi intensi alla rivendicazione dei diritti territoriali del Mezzogiorno, annoverando la sua azione quale schema dei limiti di una “nobile tradizione di pensiero” che, pur contribuendo “allo svecchiamento ed al conseguente rinnovamento dei modelli culturali italiani”, non era riuscito a “porre un rimedio definitivo allo stoico dualismo Nord-Sud (Ibidem).
Tra l’altro, sul fallimento del meridionalismo classico d’indirizzo liberale, quale suo massimo rappresentante, in una lettera del 4 settembre 1905 alla direzione del Corriere della Sera, Villari scriveva:

Non le nascondo che, sulla questione meridionale, io sono diventato assai sfiduciato e scettico. Ne scrissi fin dal 1860 […] A che valse? A nulla addirittura. Questo sarà stato, è vero, conseguenza del poco valore dei miei scritti. Ma sulla stessa questione c’è una serie assai grande di opuscoli, discorsi, volumi, non pochi dei quali, dopo lungo studio e serie indagini, dettate da uomini autorevolissimi […] Ma quello che è più, sulla stessa questione, che è in sostanza una questione agraria, v’è stata la grande inchiesta parlamentare, che raccolse un vasto e prezioso materiale. A che cosa ha giovato tutto ciò? Altrove una grande inchiesta serve ad apparecchiare una grande riforma. Quale è la riforma fatta da noi dopo l’inchiesta? (Villari, 1909: 181-182; cit. da Lucchese, 2024).

Lucchese coglie l’amara confessione di Villari al fine diconsiderare l’inutilità attuale di lotte politiche per il Mezzogiorno non accompagnate dalla presenza forte di una rappresentanza politica, oltre che di forze sociali e culturali decise (cfr. Lucchese, 2024).
Un tema, quello della rappresentanza politica, che Lucchese trova di recente riproposto dall’economista Pietro Massimo Busetta, ordinario di Statistica economica presso l’Università di Palermo (Ibidem):

Serve una forza post ideologica che in una visione di bene comune laica, ma con l’obiettivo di aiuto ai più deboli e ai più emarginati, e nell’utilizzo di tutte le opportunità che il Paese dispone, riesca a mettere insieme le forze sane che ancora rappresentano la maggioranza e che possano riuscire al cambio a 180° dei paradigmi prevalenti. Sul piatto vanno messe tutte le fiches possedute perché se si perde è l’unità del Paese che viene messa in discussione (Busetta, 2023: 172).

Bibliografia
Barra, P. (2016), “Pasquale Villari e il primo meridionalismo”, in S. Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo, Bologna: Il Mulino, pp. 29-55.
Bevilacqua, P. (2016), “La questione meridionale nell’analisi dei meridionalisti”, in S. Cassese (a cura di), Lezioni sul meridionalismo, Bologna: Il Mulino, pp. 15-28.
Busetta, M.P. (2023), La rana e lo scorpione. Ripensare il Sud per non essere né emigranti né briganti, Soveria Mannelli: Rubbettino.
Dorso, G. (1986), “La classe dirigente dell’Italia meridionale”, in Id., Dittatura, classe politica e classe dirigente, Laterza: Roma-Bari.
Fortunato, G. (1978), Carteggio 1865/1911, E. Gentile (a cura di), Bari: Laterza.
Franchetti, F. (1877), Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Firenze: Barbera.
Franchetti,L. & Sonnino, S. (1877), La Sicilia del 1876, Firenze: Barbera.
Gramsci, A. (2005), “Alcuni temi della quistione meridionale”, in Id., La questione meridionale, F. De Felice &V. Parlato (a cura di), Roma: Editori Riuniti, pp. 155-190.
Sonnino, S. (1877), I contadini in Sicilia, Firenze: Barbera.
Lucchese, S. (2024), “Alle radici del regionalismo discriminatorio: il fallimento del meridionalismo liberale ed i limiti della moral suasion. Sud senza rappresentanza”, in Meridione/Meridiani. I Sud oltre il Sud, 6 novembre 2024.
Villari, P. (1875), Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1875, Torino: Tipografia l’Opinione.
Id. (1878), Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze: Le Monnier.
Id. (1909), Scritti sulla emigrazione e sopra argomenti vari, Bologna: Zanichelli.
Id. (1979), Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, con introduzione di F. Barbagallo, Napoli: Guida.
Villari,R. (1966) (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°, Bari: Laterza § Figli.
Relazione della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia: nominata secondo il disposto dell’articolo 2 della legge 3 luglio 1875 (1876), Roma: Tip. Eredi Botta.
Patrimonio dell’Archivio Storico, Senato della Repubblica, Scheda senatore Sidney Sonnino, https://patrimonio.archivio.senato.it/repertorio-senatori-regno/senatore/IT-SEN-SEN0001-002116/sonnino-sidney, consultato il 4 gennaio 2024.

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