Saggio breve di Valentino Romano
Riassunto
Il “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi è una lettura dal “di dentro” della civiltà contadina meridionale, della quale il brigantaggio è una delle espressioni più controverse. Il saggio si propone di offrire alcuni spunti di riflessione sulla lettura che Levi offre del fenomeno da un punto di vista storico, sociale e antropologico.
Parole chiave: Carlo Levi, brigantaggio, guerra cafona, conquista regia, contadini.
Scagli la prima pietra chi, a distanza di tempo da una prima lettura, almeno per una volta nella vita, non abbia poi ripreso tra le mani un romanzo, un saggio, un libro qualsiasi; e chi, facendolo, non vi si sia accostato come se fosse la prima volta o, meglio, con un diverso registro d’approccio, con il risultato della valorizzazione di chiavi interpretative in precedenza non individuate oppure non sufficientemente valutate e approfondite. È, insomma, il fascinoso mistero e, insieme, la profonda essenza della vita sempre nuova del libro che vanno ad incrociarsi con le sempre nuove esperienze di vita del lettore.
Lessi, anzi “divorai”, per la prima volta il Cristo si è fermato a Eboli (Levi, 1945) nel ’68 e dintorni, cioè negli anni della contestazione studentesca, mentre i miei compagni ed io, poco più che adolescenti, rincorrevamo – confusamente ma con lo slancio generoso e le passioni autentiche dei nostri pochi anni – le utopie della “immaginazione al potere”, del “potere al popolo”, della “scuola per tutti”, della “morte ai tiranni”, del vagheggiato raggiungimento di una ideale “società socialista”, insomma, erano anni difficili, di passioni veementi e furono eroici, inframezzati da amori militanti e da odî di classe; anni che, oltre ad innegabili conquiste, si portarono dietro, purtroppo, anche deprecabili violenze. Ma questo è altro dire, torniamo al Cristo leviano.
La scelta di ogni lettura, per quanto appena detto, era dettata dalla necessità di corroborare e irrobustire le nostre posizioni concettuali di partenza: insomma, una lettura essenzialmente ideologica che, in quanto tale, impediva spesso di cogliere l’autentico portato culturale e umano di un testo, in qualche modo adattandone e valorizzandone il messaggio prevalentemente in funzione di supporto rafforzativo del nostro pensare e del nostro agire del momento
Così il Cristo, visto unicamente come vissuta e sofferta testimonianza degli abusi di un regime autoritario, del suo aberrante abuso dell’esercizio del potere, mi servì unicamente a prendere sempre più le distanze da esso: con il senno di poi un approccio fortemente limitato. Il che poi, a ben vedere, è la logica risultante di ogni lettura ideologica, cioè gli effetti distorsivi di una lettura, più o meno consciamente, strumentale del testo compulsato.
Con il tempo, parallelamente agli anni e al progressivo distacco dal radicalismo adolescenziale, crebbero in me l’amore per i libri ela voglia e la necessità di individuarvi il reale messaggio di ciascuno di essi, l’utilità di leggerli con le sole lenti del cuore e del pensiero di chi li aveva scritti: perciò imparai a leggere spogliandomi, per quanto mi era umanamente possibile, da ogni filtro ideologico di partenza. Contestualmente dedicavo ogni energia all’approfondimento della tematica, a me (culturalmente e geograficamente) più vicina che sempre aveva occupato i miei pensieri: quella delle classi subalterne agrarie, cioè, di quel mondo meridionale complesso e variegato, duro nelle sue manifestazioni esteriori ma tenero e ricco di valori nel suo “dentro”, di quel mondo, di quella cultura che Salvemini tutto inglobava nel lemma“contadiname”, come a volerne sottolineare la specificità nel contesto sociale. E cominciai ad inseguire i tanti perché delle sue ansie, delle sue aspirazioni, delle sue rivendicazioni, delle sue reazioni, delle sue lotte, delle sue conquiste e delle sue sconfitte. E la scelta di ogni approfondimento, di ogni scavo archivistico, di ogni nuova lettura era sempre indirizzata a una comprensione sempre più d’insiemedi quella storia dolente e, ad un tempo, epica. Di essa m’intrigava un suo tuttora controverso segmento, il ribellismo contadino e, partitamente, quello post unitario, riduttivamente indicato come “brigantaggio” e, nel caso specifico come “grande brigantaggio”: fenomeno figlio di una scelta sicuramente di rottura, di una reazione non politicizzata, confusa, istintiva, violenta, a volte anche crudele e quasi sempre senza speranza; certamente riprovevole nei singoli episodi, nelle sue strategie e negli strumenti di violenza spicciola (e a volte gratuita) adottati ma anche, se laicamente contestualizzato nelle temperie dei tempi, l’unica risposta possibile alloraa una condizione esistenziale insopportabile, alle angherie delle classi egemoni. E dopo il ribellismo anarcoide, individuale e localistico, la fase faticosa e complessa del suo lento ma progressivo e inarrestabile, trasformarsi in rivendicazionie proposte sociali collettive organizzate, strutturate e sostenute da un progetto di ampio respiro programmatico. La mia attenzione abbracciò così (e senza soluzione di continuità, fino ad oggi) la lunga marcia delle classi subalterne rurali, dal brigantaggio al sindacalismo, dal capo brigante Crocco al leader sindacalista Di Vittorio.
Da allora, com’è facile intuire, molte sono statee sono le letture “meridionaliste”: giusto per fare qualche nome alla rinfusa: Salvemini, Villari, Fortunato, Lucarelli, Rossi Doria, Dorso, Molfese, Pedio, Fiore, Nigro ecc.; grazie proprio all’assidua frequentazione con quest’ultimo, imparai a conoscere, amare e fare mio il suo mondo, radicato nella Lucania dei contadini e degli ultimi, di cui Rocco Scotellaro, è l’Omero locale. E fu proprio leggendo L’uva puttanella, un suo testo editato nel 1955 nella collana Libri del tempo della Laterza (qui si farà riferimento alla riedizione Mondadori del 2019 in Rocco Scotellaro, Tutte le opere), che mi colpì un frammento che è finestra spalancata sull’immaginario contadino, squarcio di luce sul mondo in penombra dei nostri cafoni e, allo stesso tempo, epifania dell’utilità della lettura.
Il sindaco di Tricarico, in carcere per un’accusa poi rivelatasi inconsistente, leggeva ogni sera brani di un libro ai suoi analfabeti compagni di detenzione che, ascoltandolo, ne erano rapiti: potenza della lettura che frange catene e ceppi, sbriciola muri, libera per un attimo la mente dagli affanni del contingente!
Il pensiero riandò allora ai briganti della banda Fuoco che la sera, al fuoco di un precario accampamento, facevano leggere i Reali di Francia e il Guerin meschino a Giuseppe Decina, un ragazzo che avevano sequestrato e che trattennero per qualche giorno ancora, dopo il pagamento del riscatto, solo perché … potesse portare a compimento la lettura. Scotellaro scriveva:
A che vale leggere per noi, ve lo dice questo libro, che spiega pure quando e come e perché uno scrive […] Io ho avuto la fortuna di conoscere l’uomo che l’ha scritto, non è veramente mio amico. Ha scritto questo che il più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi […] non è un amico, come non può esserlo il padre, la madre; il fratello. Amico è l’avvocato, il medico, il testimone, il deputato, il prete. Quest’uomo è un fratellastro, mio, nostro, che abbiamo un giorno incontrato per avventura. Ciò che ci lega a lui è la fiducia reciproca per un fatto accaduto a lui e a noi e un amore della propria somiglianza” (Scotellaro, 2019: 467-468).
Il fratellastro era Levi, Cristo il libro: andai allora a ripescarlo, in una sua fortunata riedizione con prefazioni di Italo Calvino e Jean Paul Sartree lo rilessi una, dieci altre volte; lo confesso, lo faccio ancora, con la medesima gratificante ostinazione del credente che ricorre ai Vangeli. Ecco, per farla breve, da allora il Cristo – mi si lasci passare il gioco verbale – è diventato il mio vangelo laico. Perché? Semplicemente perché questo libro contiene anche un saggio ineguagliabile sul brigantaggio, sull’humus sociale e culturale che ha generato il “grande brigantaggio” postunitario; e, soprattutto, perché ne offre una lettura “dal dentro”, l’unica possibile per decrittare correttamente il fenomeno.
A mio avviso, infatti, non si comprende pienamente il ribellismo contadino, pure nelle sue forme estreme, se non ci si cala, anche antropologicamente, nell’immobile civiltà contadina di cui è espressione, fino a esserne completamente assorbiti; se non ci si immerge fino all’immedesimazione; se, proprio come ha fatto Levi, non si scava in
[…] quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte (Levi, 1945: 9).
Una delle cause maggiori delle “difficoltà” che ha incontrato l’unificatore nel radicare al Sud, tra le classi subalterne, il processo unitario nazionale è stata sicuramente il considerare la “diversità” dell’unificato come “inferiorità”, il non tenere in alcun conto quella che Calvino individua come “compresenza dei tempi” (Levi, (1963: IX) con la naturale conseguenza dell’adozione di forme colonialistiche nella gestione delle genti e dei territori “unificati”. Come dire, che le lancette di un ideale orologio del mondo contadino “unificato” segnavano un’ora diversa da quelle dell’orologio del mondo proto-industriale “unificatore”, ma quest’ultimo non se ne accorse o, meglio, non volle accorgersene e si preferì “reprimere” piuttosto che “conciliare”: anche da qui, a parer mio, lo scontro, gli scontriche insanguinarono il difficile nascere della Nuova Italia.
Proviamo dunque, pur senza pretesa di esaustività (e, ancor meno, di definitività), a far cenno ad alcuni passaggi salienti del Cristo, così come visti da un lettore comune, da utilizzare comepunti di partenza per un confronto più approfondito.
La prima riflessione che questo libro offre a quel lettore è che, per illustrare compiutamente il brigantaggio, tanto nelle varie forme della narrazione, tanto in quelle del saggio, occorre, innanzi tutto, metterci – oltre all’enunciazione cronachistica dei fatti e alla loro analisi “accademica e scientifica” – la comprensione degli stati d’animo, delle ragioni profonde del malessere di quel mondo, delle cento e cento diverse sfaccettature che lo contraddistinguono. Tutto questo Levi – uno che, si badi bene, per ragioni anagrafiche, culturali e perfino religiose, era inizialmente “straniero” al mondo contadino meridionale – ha saputo farlo, miscelando sapientemente il registro saggistico con quello narrativo, perché è partito proprio dall’immedesimazione: quel «i miei contadini» nell’incipit del Cristo (Levi, 1945: 9), quei ripetuti richiami alla «mia terra» stanno lì a testimoniarlo; un unicum nel debordante (quando non superficiale e spesso più arido e asettico di un’analisi clinica) scrivere, anche successivo, intorno ai “fatti briganteschi”.
Vivendo tra i contadini lucani, vivendo la loro stessa vita, diventando uno di essi, condividendo i loro medesimi tetti, Levi ha saputo coglierne la diversità, l’estraneità e la marginalità rispetto all’allora ancora recente processo unitario. E, con la sintesi di cui è capace solo il grande scrittore, ha individuato la prima delle cause dello iato profondo che separava unificati e unificatori, cioè il mondo contadino meridionale dal resto del Paese; uno iato che, prodotto e ampliato dalle incomprensioni, dall’indifferenza, dagli atteggiamenti colonialisticie dalla mentalità classista dell’unificatore, ha giocato un ruolo fondamentale nell’esplosione della ribellione contadina: “Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo” (Ibid.: 10).
È proprio l’ultimo di questi “viaggi”,“la conquista regia”, per usare una terminologia cara a Guido Dorso (Dorso, 1955: 9), che – per le forme e con gli obiettivi con i quali si era concretamente realizzata, a dispetto di quegli ideali unitari chene erano stati il comodoparavento – ha favorito l’accentuarsi di quello iato al quale si accennava prima, ha provocato l’esplosione del brigantaggio prima e alimentato la diffusione a livelli pandemici poi.
Per i contadini, lo Stato è più lontano dal cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire” ( Ibid.: 73-74).
Ecco, se si cerca – senza ricorrere a elucubrate congetture – una spiegazione razionale e veritiera del perché della disaffezione delle classi subalterne meridionali tutte e agrarie in particolare verso “lo Stato”, è tutta lì, in quell’avverbio (lontano), in quell’aggettivo (maligno) e in quella frase scarna ma tagliente (perché sta sempre dall’altra parte).
L’immersione, spinta fino alla totale immedesimazione, in un mondo serrato nel dolore ha anche consentito a Levi di comprendere (pur senza giustificarla) la debole percezione da parte dei contadini-briganti della negatività del loro agire criminale: “[…] in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale ma un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose” (Ibid.: 10).
Se si tiene presente quest’assioma, che, cioè, il male per il contadino (e per il ribelle in particolare) non è morale ma un dolore terrestre che sta nelle cose, un elemento della vita – reso naturale da fatti, comportamenti e circostanze che qui risulterebbe complesso analizzare – si dovrebbero guardare con occhio diverso (non giustificativo ma comprensivo) le grassazioni, le distruzioni e i saccheggiche, guarda caso, hanno natura di classe. La stragrande maggioranza di tali violenze è, infatti, indirizzata contro l’agrario, il borghese, il rappresentante (civile e militare) del potere, in definitiva il nemico di classe. Ne deriva una diversa percezione del delitto: il ribelle considera le rapine una forma di legittima riappropriazione; le violenze e gli omicidi, l’attuazione di spiccia giustizia (altra e alternativa). Sostenere ciò anche da parte mia (va precisato per evitare equivoci) non costituisce giustificazione delle azioni criminali: è, semmai, un tentativo di capirne la prima ratio. Levi, comprendendo “dal di dentro” il concetto, l’ha, di fatto, sdoganato e portato alla nostra attenzione. E gli va riconosciuto.
Una delle cose che più colpisce Levi è la diffusa e incombente presenza del grande brigantaggio nell’immaginario e nel quotidiano e nelle terre dei suoi contadini. Sono passati settant’anni da quegli eventi, allorché lo scrittore approda (inizialmente suo malgrado) nelle terre del Sud ma il brigante è ancora lì nella mente, nel cuore, nella cupa disperazione delle classi subalterne agrarie; è dappertutto, perfino nei toponimi popolari, nelle pietre, tra macchie e calanchi:
[…] dall’altra c’è un muretto basso sopra un precipizio, la Fossa del Bersagliere, così chiamata per esservi stato buttato un bersagliere piemontese, sperdutosi in questi monti al tempo del brigantaggio e fatto prigioniero dai briganti (Ibid.: 17).
Tutto in quelle terre riconduce alla guerra contadina, e consente a Levi di evidenziare la forza immanente della memoria che è macigno di un passato parzialmente superato e comunque non rinnegato e, insieme “triste speranza” di tempi migliori. Tutto è monumento evocativo della “guerra cafona”: “A San Mauro forte, poco più in altosulmonte, avrei ancora veduto, all’ingresso del paese, i pali a cui furono infisse per anni le teste dei briganti […]” (Ibid.: 12).
Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è luogo di ritrovo; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luoghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro e dai loro fatti” (Ibid.: 127).
E Levi, viaggiatore “comprensivo”, tutto annota in questo inconsueto racconto di “viaggio”, offrendolo a chi, come il fratellastro Scotellaro, recependo e condividendo poi tutte le sue riflessioni (e con esse confrontandosi), le fa sue al punto da trarne spunto perfino dal titolo del libro e le traduce nelle irripetibili forme poetiche che conosciamo; non si può non avvertirne, infatti, l’eco nel Così passeggiano i carcerati, in quel “[…] e Cristo lontano da noi in questo inferno inane” (Scotellaro, 1954: 133).
Allo stesso modo non si può non annusare il profumo delle pagine leviane nella celeberrima Sempre nuova è l’alba che lo stesso Levi definirà poi la “Marsigliese contadina”: ‘‘Spuntano ai pali ancora/ le teste dei briganti, e la caverna/ l’oasi verde della triste speranza/ lindo conserva un guanciale di pietra’’ (Ibid.: 96).
In questo brano, i richiami di Scotellaro al Cristo appaiono evidenti, perfino testuali, come nel caso delle “teste dei briganti” (Levi, 1945: 9), ma anche concettuali come in quello della “triste speranza” della lotta e dei suoi risultati che in Levi è difesa “senza ragione e senza speranza” (Ibid.: 128). Però, proprio a proposito di quest’ultimo concetto non si possono non cogliere due diverse sfumature: mentre in Levi la convinzione sull’assenza di “speranza” sembra conclusiva, tranchant e senza appello e riecheggia amaramente anche quando si chiede retoricamente “che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli?” (Ibid.: 131)”, in Scotellaro sembra attenuarsi, aprendosi a un barlume di ottimismo con la chiusa della lirica “Ma nei sentieri non si torna indietro./ Altre ali fuggiranno/ dalle paglie della cova,/ perché lungo il perire dei tempi/ l’alba è nuova, è nuova (Scotellaro, 1954: 96).
I due fratellastri sarebbero quindi in disaccordo? A me non sembra, perché entrambi – nell’affrontare entrambi la tematica della speranza nella lotta brigantesca – partono dalla medesima constatazione: l’azione brigantesca è “lotta dell’oggi”, di corto respiro, priva di prospettive, la fiammata di una reazione che si consuma nel singolo episodio, nella violenza localistica contro “quel” nemico; mentre, però, per Levi è lotta, per i suoi stessi limiti, destinata comunque alla sconfitta, per Scotellaro è propedeutica a lotte più mature, all’inevitabile progredire dei tempi. È la medesima problematica affrontata da due diverse visuali, non necessariamente contrastanti l’una con l’altra, ma concorrenti e ra esse stesse complementari
Quand’anche, però, fossimo di fronte a due posizioni totalmente divergenti – e, tra l’altro, non è nemmeno detto che dovessero per forza essere del tutto convergenti dal momento che, non a caso, lo stesso Scotellaro parla di “somiglianza” e non di “eguaglianza” tra lui e Levi – nulla toglie al grandissimo merito che entrambi condividono: affrontare e analizzare, cioè, la tematica – anche oggi quasi tutti trascurata – della “speranza” come una delle molle dell’agire brigantesco.
Più importante delle possibili differenze è, però, la medesima domanda che entrambi, implicitamente pongono alla nostra riflessione: è lotta “senza speranza” o lotta “di speranza” quella degli uomini e delle donne nelle macchie?
Al di là delle superficiali generalizzazioni di qualche anche autorevole autore, e per quanto possa valere la mia radicata convinzione, credo che all’interrogativo non possa essere data una risposta univoca e che, semmai, si debba affrontarela problematica caso per caso, tentando di dare ad ogni singolo caso una risposta diversa, anche alla luce dei pochi e frammentari elementi di cui oggi si dispone. E, in aggiunta, non è neanche così pacifico che la lotta di un singolo individuo sia sempre riconducibile ad una sola delle categorie sopra dette. Un solo esempio: Giuseppina Gizzi, Peppinella, donna del brigante Giacomo Parra, Scorzese e brigantessa anch’essa, avrebbe confidato al brigante Di Gè, autore di una celebrativae assolutoria autobiografia che pure intrigò Salvemini e Fortunato, (Di Gé, 1911), di aver perso ogni speranza nel futuro: “dove corre corre la mia pianeta”, avrebbe confidato Peppinella al Di Gè in un momento di sconforto. Successivamente, però, la donna, con il suo compagno, tentò invano di procacciarsi documenti validi per l’espatrio nelle Americhe nella speranza di un altro domani. (Per inciso, i due, traditi, finirono decapitati e le loro teste contese dai rispettivi sindaci di due paesi confinanti…); e così, in questa donna convissero, seppure in tempi diversi, tanto la perdita di ogni speranza quanto una nuova, seppur vana, speranza. E così per Filomena Pennacchio (Romano, 2024) e per molti altri.
Tornando più specificatamente al Cristo sarà utile dare un cenno ad una delle cause remote (ma affatto secondaria) di quel profondo disagio contadino che poi sarebbe sfociato nella ribellione armata, a una causa che – come si vedrà subito – Levi coglienella sua completezza e apparente semplicità: l’esistenza di una stratificata, limitata e netta suddivisione delle classi meridionali; una suddivisione, cioè, tutta racchiusa in due sole classi, che con la puntuale analisi di Tommaso Pedio, possiamo racchiudere nell’antitetico binomio “briganti e galantuomini”:
briganti e galantuomini sono due termini con cui indichiamo due ceti e due classi sociali i cui contrasti hanno caratterizzato, e non soltanto nell’Ottocento, la vita del Mezzogiorno d’Italia” (Pedio, 1979: 115).
Il che, sostiene Levi, ha portato nel tempo a una sorta di cristallizzazione di odî elementari che si perpetuano in un continuum che tocca anche la Storia recente:
Si erano odiati per secoli qui, e sempre si odieranno, fra queste stesse case, davanti agli stessi sassi bianchi del Basento e alle stesse grotte di Irsina. Oggi erano tutti fascisti, si sa. Ma questo non voleva dir nulla. Prima erano nittiani o salandrini, e risalendo nel tempo, giolittiani o antigiolittiani, della Destra della Sinistra, per i briganti o contro i briganti, borbonici o liberali, e prima ancora, chissà (Levi, 1945: 27-28).
Nella storia politica ed economica del Sud sono mancate, in altri termini, quelle classi cosiddette “intermedie”, capaci con la sola loro stessa presenza, se non di dirimere, almeno di attenuare i conflitti di classe in un quadro sociale più complesso e variegato.
Levi poi, pur restando sempre fedele e coerente al registro narrativo che caratterizza tutto il libro, sa anche rivelarsi storico di razza. Infatti, come non registrare, ad esempio, la puntuale descrizione del cruento scontro presso il mulino Acinello, avvenuto il dieci novembre del 1861, nel corso del quale le formazioni unite di Crocco e Borges ebbero ragione delle truppe regolari?
Dopo Stigliano si scende alla valle del Sauro, con il suo grande letto di sassi bianche, e il bell’uliveto del principe Colonna nell’isola dove un battaglione di bersaglieri fu sterminato dai briganti di Boryes che marciavano su Potenza (Ibid.: 12).
Ma Levi, ancor più fine storico si dimostra quando, anche ricorrendo all’espediente dei nomi di fantasia, indica un’altra delle principali cause del proliferare del brigantaggio: il doppio gioco dei latifondisti, quella sottile strategiache consentì, addirittura alla borghesia agraria dell’epoca – in un perverso gioco di appoggi contrapposti – di sfruttare, ora a vantaggio di uno ora di un altro dei suoi componenti, la rabbia contadina che, invece, era confusamente rivolta proprio contro quella classe nella sua interezza; è quel manutengolismo che mise in atto una strategia della tensione ante litteram, favorendo il disordine per poi presentarsi come l’unico garante possibile dell’ordine; è quel “manutengolismo”, figlio di una sordida lotta per il controllo del potere locale, che armò la mano dei Crocco, dei Ninco Nancoe di tanti altri capibanda, che se ne servì cinicamente e che spesso poi (come nel caso di Ninco Nanco) eliminò anche fisicamente in quanto inaffidabili depositari di segreti inconfessabili .
[…] Anche il barone di Collefusco, il padrone di tutte le terre qui attorno, il proprietario del palazzo sulla piazza, chi è? Lui sta a Napoli, si sa, e da queste parti non ci viene mai. Non lo conosce? I baroni di Collefusco sono stati, di nascosto, i veri capi del brigantaggio, nel ’60, da queste parti. Erano loro che li pagavano, che li armavano (Ibid.: 28).
Levi, sotto le mentite spoglie del barone di Collefusco, cela l’identità di un personaggio reale: come ho avuto modo di scoprire e scrivere in precedenza (Romano, 2018: 137) si tratta, invece, di Luigi Materi di Grassano, un latifondistadi origine calabrese la cui famiglia, dal decennio francese in poi, ebbe modo di accumulare un assai rilevante latifondo, destreggiandosi abilmente ora con l’uno, ora con l’altro dominatore di turno.
Al di là, però, dell’aspetto puramente storiografico, il brano è anche spia del metodo adottato dall’autore che attinge alle fonti orali, preziose testimoni e custodi della memoria storica delle classi subalterne e ne estrpola i dati salienti.
Sono proprio queste fonti – nella loro lenta ma incessante trasformazione in mito allegorico del singolo reale comportamento o personaggio – a offrire a Levi tanto la giusta chiave interpretativa del fenomeno del brigantaggio quanto la percezione che di esso avevano le classi subalterne agrarie:
[…] ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito; il brigantaggio. […] tutti, vecchi o giovani, uomini e donne, ne parlavano come di una cosa di ieri, con una passione presente e viva. […] (Ibid.: 127).
Certamente icontadini di Levi non si gloriano del brigantaggio: lo accettano come evento doloroso ma necessario, come momento tragico ma, allo stesso tempo, epico della loro secolare odissea esistenziale; una sorta di conato di malinconico orgoglio contadino, anche se funesto negli effetti:
[…] salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti e, col passare del tempo quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito (Ibid.: 127-128).
Non si commetta, però, l’errore di ritenere che il solo guardare il brigantaggio “dal di dentro” significhi per Levi un elogio del fenomeno stesso: è solo uno scavo ragionato, non preconcetto e non superficialmente moralistico, nelle sue motivazioni più profonde e scatenanti. Il che non comporta alcuna forma d’adesione ideologica. C’era bisogno (ieri come oggi) di ribadire questo concetto per evitare fraintendimenti di sorta e Levi vi dedica un passaggio, a mio avviso, fondamentale e anche sottilmente caustico:
Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e “progressista”, quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno a intenderlo. Del resto, quando i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa e dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea (Ibid.: 128).
Questo brano del Cristo, da solo e anche a volerlo estrapolare dal contesto complessivo del libro, dovrebbe essere punto di partenza e, insieme, d’arrivo di ogni attuale discussione sulla natura del brigantaggio e potrebbe far meditare tanto quei risorgimentisti duri e puri che connotano la ribellione contadina esclusivamente come “fatto criminale”, quanto quei revisionisti nostalgici del “bel tempo che fu” che vi appiccicano indiscriminatamente l’etichetta della reazione politica legittimista. Se entrambe le parti, animosamente impegnate oggi nella stantia querelle sul primato della rispettiva teoria, decidessero di abbandonare le rispettive curve di un tifo sterilmente contrapposto, se tenessero da conto quest’analisi leviana, forse si potrebbe arrivare o, almeno, tendere a una lettura condivisa del fenomeno “brigantaggio meridionale” nelle sue molteplici sfaccettature. Ma anche questo è discorso “altro”. Tornando, assai più utilmente, a Levi, sarà anche proficuo rileggerne il brano che segue:
Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini contro lo Stato contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta; perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, e impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio […]. Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinoso e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni (Ibid.: 128-131).
“Secoli di rassegnazione …”, “si muove un senso elementare di giustizia e di difesa …”, “la ferocia nasce dalla disperazione …”, “questo desiderio cieco di distruzione”…”, “Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore…”, “una loro funebre pace …”, “e poi partono, rassegnati, per le prigioni …” più che parole e frasi a effetto, figlie di una penna baciata dalla divinità, sono macigni storici, sociali e antropologici che agitano le acque stagnanti delle troppo facili e ricorrenti decodifiche del ribellismo contadino meridionale.
Che cosa sono, allora, per Levi i suoi (e nostri) contadini-briganti? Semplicemente e tragicamente “strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro”.
Ma, almeno per me, su tutti c’è un passaggio che tutti gli altri contiene e riassume: “… col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta”.
Eccolo qui il nocciolo duro dell’affaire brigantaggio: lo scontro antropologico tra due mondi confliggenti che, all’improvviso si vedono costretti alla convivenza forzata; nocciolo che, a riflettervi pacatamente, rappresenta il limite principale della compiutezza dell’intero processo risorgimentale.
Mi piace concludere questi primi, disordinati appunti di un lettore comune con il richiamo leviano a uno dei topoi più intriganti del mondo brigantesco, un topos che – nel suo profondo passaggio dalla realtà al mito – dà la cifra dell’immaginario contadino, nel suo insopprimibile bisogno di trasfigurare, idealizzare ed eroicizzare il ribelle. Mi riferisco alle donne del brigantaggio, un tema a me particolarmente caro; Levi le rappresenta, ricorrendo al racconto di un testimone del tempo, con la descrizione di una di esse che, più di altre, ha suscitato la fantasia popolare, Maria Dinella, ‘a pastora, compagna di Ninco Nanco:
[…] Maria ‘a Pastora era una donna bellissima, una contadina, e viveva con il suo amante, in giro per i boschi e le montagne depredando e combattendo, vestita da uomo, sempre a cavallo. […] Maria ‘a Pastora partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine e ai paesi, alle imboscate, alle taglie, alle vendette. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria ‘a Pastora gli porgeva il coltello. […] era bella, grande, bianca e rosata come un fiore, con le grandi trecce nere lunghe fino ai piedi, ritta in arcione al suo cavallo. […] il vecchio non mi sapeva dire come fosse finita Maria ‘a Pastora, questa dea della guerra contadina. Non era morta e non l’avevano presa, mi diceva; era stata vista a Pisticci, tutta vestita di nero; poi era scomparsa, col suo cavallo, nel bosco, e non s’era mai più saputo nulla di lei (Ibid.: 68-69).
Bella, appassionata, abile cavallerizza, coraggiosa, crudele, combattente irriducibile, sconfitta ma non doma, dea della guerra contadina, vestita col nero del lutto nell’ultima apparizione, scomparsa nelle nebbie del tempo, quasi una divinità agreste.
Gli elementi ricorrenti del topos, come si vede, ci sono tutti. E ciascuno meriterebbe di essere esaminato singolarmente; ma tutti insieme – come pennellate di diverso colore che concorrono alla policromia di un affresco – compongono l’immaginario collettivo e individuale del mondo contadino; la rappresentazione pittorica e poetica di ciò che i contadini delle terre amate da Levi avrebbero voluto essere e che, in qualche modo, sono stati. Anche se tragicamente e per breve tempo.
E in questo immaginario il ribelle, l’eroe costruito per sopravvivere alla disperazione di un’esistenza grama, non può, non deve morire. Proprio come ‘a pastora che tutti vogliono immaginare sempre in groppa al suo cavallo, con le bisacce piene delle sofferenze contadine, al galoppo tra le macchie e le selve dove si può trovare ancora una residuale speranza di riscatto. Non importa come e con quali mezzi.
A conclusione di questo che vuole essere solo un modesto ma riconoscente omaggio all’uomo che seppe diventare “ambasciatore del mondo contadino” mi pongo e pongo al lettorela stessa domanda retorica che Levi incastona nel Cristo:
[…] il brigantaggio doveva perdere. Non aveva armi forgiate dal Vulcano, né cannoni come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? (Ibid.: 131).
Bibliografia
Di Gé, M. (1911), Vita di Michele Di Gé nato a Rionero: 24 dicembre 1843, Melfi: fr.lli Insabato.
Dorso, G. (1955), La Rivoluzione meridionale, Torino: Einaudi.
Levi, C. (1945), Cristo si è fermato ad Eboli, Torino: Einaudi.
Id. (1963), Cristo si è fermato ad Eboli, con saggi di I. Calvino e J. P. Sartre, Torino: Einaudi.
Pedio, T. (1975), Brigantaggio e questione meridionale, Bari: Levante.
Romano, V. (2018), Dalle Calabrie agli Abruzzi. Il generale José Borges tra i briganti di re Francesco II, Nocera Inf.: D’Amico.
Id., (2024), Filomena, la regina delle selve. Storia e storie delle donne del brigantaggio, Roma: Carocci.
Scotellaro, R., (2019), L’uva puttanella, in Rocco Scotellaro, Tutte le opere, Milano: Mondadori.
Id. (1954), È fatto giorno, Milano: Mondadori.