di Giovanni Capurso
L’eccidio delle Fosse Ardeatine costituisce una delle pagine più dolorose della Resistenza e della recente storia italiana. Molto è stato scritto su questa feroce rappresaglia nazista.
Il massacro delle Ardeatine fu una delle più orrende stragi commesse dopo l’8 settembre nel nostro Paese dai nazifascisti. Come dice Ferdinando Pappalardo, vicepresidente dell’ANPI, si trattò non soltanto di una rappresaglia, peraltro attuata in violazione delle leggi internazionali di guerra, ma di un’atroce vendetta che tradiva, al contempo, un’ammissione di rabbiosa impotenza, e anche di un barbaro atto di terrorismo, giacché il suo fine era quello non di dissuadere i gruppi della Resistenza dal porre in essere ulteriori atti di ostilità, ma di convincere la popolazione ad accettare supinamente la situazione esistente e, per riflesso, di impedire che l’opzione della lotta armata facesse nuovi proseliti.
C’è l’eccidio delle Fosse Ardeatine, e poi le 335 storie di uomini che l’anno compresa. Buona parte di queste storie sono intrise di anelito di libertà, di esigenza di riscatto per l’oppressione.
Anche di recente sono state riscoperte alcune vite dei “martiri” coinvolti nell’eccidio. Tra questi vorrei puntare l’attenzione su Gioacchino Gesmundo, uno dei protagonisti della Resistenza romana e di cui di recente è stata pubblicata la biografia dello scrivente (Libertà a caro prezzo: Gioacchino Gesmundo e le Fosse ardeatine, ERF, Bari, 2025), frutto di un faticoso scavo archivistico a Bari e Roma e di una rielaborazione delle testimonianze a disposizione.
La sua, va subito precisato, èuna vicenda di riscatto meridionalista. Nato a Terlizzi, una cittadina del nord barese, dopo immani sacrifici, nella Capitale realizzò la sua vocazione di intellettuale come maestro elementare, professore di Filosofia e Storia e assistente all’Università. Erano gli anni della dittatura.
Nel volumevengono ripercorsi gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Gioacchino, segnati dagli stenti e dalle privazioni (nato in una famiglia contadina, era rimasto orfano di entrambi i genitori quando era molto piccolo), e quelli della formazione, dal conseguimento del diploma presso l’Istituto Magistrale Statale “Bianchi Dottula” di Bari al trasferimento a Roma, dove presta servizio in diverse scuole elementari e si iscrive all’Istituto Superiore di Magistero, laureandosi nel 1932. Nel corso degli studi, Gesmundo incontra e frequenta docenti che eserciteranno una profonda influenza sulle sue idee e contribuiranno non poco alla maturazione della sua personalità, da Giovanni Modugno a Guido De Ruggiero, da Giuseppe Lombardo Radice a Pietro Silva: saranno questi “maestri” ad aiutarlo a emanciparsi dall’ingenuo idealismo dell’età giovanile, ma soprattutto a educarlo all’anticonformismo, all’autonomia di pensiero, alla coerenza con i propri convincimenti.
Una svolta dell’esistenza di Gesmundo coincide tuttavia con il passaggio alla cattedra di Storia e filosofia nei licei: al classico “Vitruvio Pollione” di Formia prima (dove ebbe come studente Pietro Ingrao), e poi allo scientifico “Cavour” di Roma. La più attenta lettura dei classici della filosofia, la conoscenza di alcuni testi fondamentali della tradizione marxista-leninista, i rapporti con l’ambiente culturale romano gli rivelarono i limiti del socialismo utopistico e filantropico, intriso di mazzinianesimo, che aveva fino ad allora eletto a credo etico-politico; mentre l’insofferenza per il clima oppressivo del regime, il disgusto per la sua crescente retorica bellicista, che di lì a poco sarebbe sfociata nella scellerata decisione di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler, spinsero Gesmundo su posizioni di sempre più radicale avversione per il fascismo. Ma soltanto nel 1943 il professore aderì al Partito Comunista: a fargli compiere il passo furono i fermenti antifascisti che dall’anno precedente si erano andati intensificando nella capitale, e soprattutto gli avvenimenti seguiti alla caduta di Mussolini e all’8 settembre.
Con l’occupazione nazista di Roma l’attività del professore e partigiano venuto dal Sud s’intensificò:ospitò nella sua casa di via Licia, prima la redazione clandestina de “L’Unità” e poi l’arsenale dei GAP romani. Fu capo locale del controspionaggio e teneva corsi di formazione ideologica ai compagni di lotta. La gappista Carla Capponi, in un suo memoriale, riportò che “le sue ore di lezione erano sempre affollate di compagni e compagne, non più di una decina alla volta poiché un numero maggiore avrebbe creato sospetti”.
Catturato il 29 gennaio 1944 – lo stesso giorno del conterraneo don Pietro Pappagallo – dopo una denuncia, fu tra i primi tre individuati dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine.