di Ferdinando Di Dato
Durante gli ultimi decenni del Settecento, l’industria serica e manifatturiera lombarda era in costante crescita, che però trovò una prima battuta d’arresto agli inizi dell’Ottocento a causa della politica napoleonica. La rivoluzione significò per la Francia la fine del commercio atlantico e l’economia francese si orientò in altri settori: quello serico, laniero e cotoniero. Quest’ultimo si giovava di una profonda innovazione tecnologica, che presea modello proprio l’Inghilterra. Poi nei primi anni dell’Ottocento,l’economia dei paesi europei, gravidanti nell’orbita napoleonica, venne asservita agli obiettivi della guerra economica francese. La politica economica napoleonica per proteggere i suoi produttori applicò il Blocco continentale, che, chiudendo l’Europa continentale al commercio britannico, danneggiò le manifatture lombarde legate all’esportazione.
Dopo il 1807 la situazione cominciò a deteriorarsi, dapprima lentamente, epoi con una netta caduta tra il 1810 e il 1811, proprio quando fu applicato in maniera rigida il Blocco; di contro si ebbe uno sviluppo agricolo considerevole. È da notare come la crisi del settore serico (seta greggia elavorata) abbia fortemente influenzato gli storici al punto tale da spingerli ad una ingiusta valutazione dell’amministrazione napoleonica in materia economica. Gli effetti del Blocco continentale, invece, non provocaronoalcuna crisi nel settore laniero italiano; anzi in età napoleonica, anche senon vi furono importanti trasformazioni delle forze produttive e dei rapporti di produzione, le richieste di manufatti alle aziende lombarde, venete e piemontesi, aumentarono sensibilmente sia per necessità di ingenti fornituremilitari sia per le esclusioni delle stoffe inglesi dal mercato dell’Europa continentale. I lanifici lombardi e piemontesi dunque conobbero momenti felici; il Piemonte registrò addirittura un vero e proprio rinnovamento tecnologico dei suoi lanifici; nel Veneto però, eccezion fatta per i lanifici di Schio, fu crisi.
I porti italiani, come tutti i porti francesi o nell’orbita francese, a causa del blocco continentale conobbero una paralisi completa; la Liguria, però, nonostante la crisi del porto di Genova, conobbe le prime cotoniere meccanizzate; la meccanizzazione però non fu una prerogativa solo ligure, ma anche del milanese, del Piemonte e del Regno di Napoli. Anche per quest’ultimo, il blocco continentale rappresentò la grande occasione per affrancarsi dalla dipendenza dall’estero, in modo particolare dagli Inglesi, soprattutto per il comparto tessile. Murat più volte sostenne che era giunto il momento di trasformare le materie prime locali in prodotti finiti e di creare una struttura manifatturiera che affiancasse la produzione agricola. Le iniziative del governo di Murat tendevano a contrastare la ruralizzazione totale, come voleva la Francia, e si muovevano nella direzione di incoraggiare, oltre che l’agricoltura, anche il commercio e soprattutto le manifatture, conseguendo risultati non trascurabili. Questo progetto tuttavia portò i due cognati allo scontro. Numerose volte i due arrivarono ad un duro confronto all’indomani del Blocco continentale e in occasione della crisi economica tra il 1810 e il 1811, in una congiuntura climatica e produttiva sfavorevole. Murat per evitare il crollo dell’economia napoletana, visto che erano ferme le esportazioni e il regno versava in una crisi di sovrapproduzione per alcuni prodotti agricoli, chiese a Napoleone l’autorizzazione a commerciare con gli americani.
L’Imperatore respinse la richiesta e Murat fu costretto, per alleviare la crisi, ad aprire il regno al contrabbando, dando vita a un intenso traffico commerciale con le navi americane. Napoli, dunque, come tutti i paesi che gravitavano nell’orbita napoleonica, doveva solo eseguire le direttive dell’Imperatore. Ma i rapporti tra i due cognati si fecero sempre più tesi quando Napoleone individuò il Regno di Napoli come lo sbocco ideale per le manifatture francesi. La politica economica di Napoleone entrava così in contrasto con quella attuata da Murat, in quanto quest’ultimo voleva, con la creazione di Istituti di Incoraggiamento, incrementare e migliorare la produzione manifatturiera del regno. Secondo la politica napoleonica, invece, il Regno di Napoli doveva rimanere agricolo, produttore di materie prime da vendere ai Francesi a basso prezzo, mentre i prodotti manifatturieri nel regno dovevano essere importati dalla Francia. Questo atteggiamento ci fa pensare che i napoleonidi considerarono il Regno come un mercato coloniale, da cui prendere i prodotti agricoli e le materie prime, che poi sarebbero state trasformate in prodotto finito in Francia e il surplus dei prodotti invenduti sarebbe stato esportato nel regno di Napoli; quest’ultimo, insomma,nell’ottica napoleonica doveva diventare un mercato di assorbimento dei manufatti francesi. In ogni modo, Murat inizialmente si oppose al progetto napoleonico, ma finì con l’accettare il volere del cognato.
L’industria tessile meridionale, ancora in fase di crescita, giammai avrebbe potuto soddisfare le richieste che provenivano dal mercato interno. Potremmo dire che anche se il governo avesse favorito la politica industriale sarebbe occorso troppo tempo prima che le industrie si avviassero all’espansione. Per far fronte alle varie difficoltà economiche, come si è detto, si incrementò sempre di più il contrabbando con gli americani perché il Blocco continentale aveva mandato in crisi il Regno, chiudendo il commercio con l’Inghilterra, che era il maggior acquirente di olio, per l’uso industriale, e di materie prime; pertanto in mancanza della domanda inglese fu necessario aprirsi agli Stati Uniti.
Le grandi novità rivoluzionarie ci furono anche nel campo socioeconomico, con l’abolizione della feudalità, la quotizzazione dei demani e con la nuova politica ecclesiastica. Tutti provvedimenti che sancirono un nuovo ruolo della proprietà terriera, incidendo fermamente sulle strutture economiche del regno. Nella prassi, insomma, i baroni mantennero i loro antichi atteggiamenti, nonostante l’abolizione giuridica della feudalità. La classe baronale, dunque, rimase sempre egemone all’interno della società, non più attraverso i diritti feudali ma attraverso il diritto di proprietà e la loro forza contrattuale. Per le classi subalterne,invece, non cambiò nulla; anzi cambiò solo la forma giuridica dello sfruttamento, perché non ci fu più l’appropriazione da parte degli ex baroni del lavoro contadino attraverso i diritti feudali ma attraverso il diritto e il contratto. La società insomma si trasformò in senso borghese e non in senso capitalista, perché lo sfruttamento non avveniva attraverso regole di mercato, ma per mezzo di norme contrattuali e del diritto di proprietà.
I contadini, infatti, corrispondevano all’ex barone la loro parte non più come terraggio ma come affitto. I baroni con la nuova legge riscattarono parte consistente delle ex terre feudali come libere proprietà (terreni chiusi etc),che vennero amministrate da questi non più come possessori ma come proprietari esclusivi. Dal demanio feudale, sul quale i cittadini esercitavano gli usi civici, gli ex baroni ricevettero da ¼ a ¾ delle terre, mentre la parte restante venne assegnata ai Comuni, perché fosse quotizzata ai cittadini più indigenti, in compenso della perdita degli usi civici, allo scopo di creare dei piccoli proprietari terrieri e mutare, secondo il legislatore, la struttura sociale del Mezzogiorno. In realtà, vi fu una modifica dei rapporti di produzione, dei contratti agrari e della struttura economica del Regno. Il crollo dei vincoli feudali comportò, tuttavia, la fine dell’inamovibilità di molti coloni, trasformatisi in enfiteuti, e la valorizzazione e il riassetto della proprietà. La terra diveniva un capitale libero e cedibile, insomma, poteva essere valorizzata e venduta.
Gioacchino Murat e Giuseppe Zurlo ritennero necessario acquisire un quadro chiaro della situazione del Regno e avviarono una capillare indagine conoscitiva sul suo stato naturale, fisico, demografico, economico e sociale,per poi iniziare una concreta politica di sviluppo. Per avere notizie più precise, i tecnici utilizzarono sia l’osservazione diretta sia la scienza statistica, la cosiddetta statistica murattiana, per la rilevazione dei dati territoriali. Per «la redazione statistica del Regno», il governo incaricò Lucade Samuele Cagnazzi, che attraverso appositi questionari raccolse informazioni dettagliate sulle diverse realtà delle province e deicircondari102. L’obiettivo della Statistica era quello di avere una conoscenza completa del Mezzogiorno in modo da poter avviare adeguate riforme. La Statistica fu realizzata nel 1811 e i dati raccolti sono depositati presso gli archivi provinciali. I napoleonidi, quindi, vollero conoscere per poter migliorare e creare anche nuove reti viarie; tanto è vero che la documentazione del fondo Ponti e Strade negli Archivi di Stato ci mostra
l’interesse, durante il Decennio francese, per la creazione di una cartografia della rete stradale dell’intero Regno. “Senza dubbio questo sviluppo venne perseguito principalmente per fini strategici o amministrativi; nondimeno il commercio italiano ne trasse grande profitto» (E. V. Tarle, La vita economica dell’Italia nell’età napoleonica, Torino 1950. p.70). Mentre furono istituiti altri fondi importanti per la conoscenza del territorio, come quello degli Affari Forestali, che consentì la ricostruzione della storia forestale prima e dopo la promulgazione della legge del 1811, e l’istituzione dell’Amministrazione generale delle acque e delle foreste, che servì ai Francesi per porre un argine alla deforestazione selvaggia a scopo di coltivazione.
Per la questione dell’assistenza e della sanità pubblica, i governanti francesi assunsero una situazione di compromesso, in quanto compresero che non sarebbe stato possibile introdurre in tali settori una completa laicizzazione, data la lunga e radicata presenza delle istituzioni religiose. Malgrado ciò, l’amministrazione e la tutela della beneficenza furono quasi completamente posta sotto il controllo statale. Murat diede l’avvio al funzionamento di un Consiglio di amministrazione per tutti gli ospizi,ospedali e altri luoghi per il sollievo dei poveri e degli ammalati. Pertanto, facendo seguito alle direttive del decreto del 16 ottobre 1809, il Consiglio generale degli ospizi era presieduto dall’Intendente e composto dal vescovo o da un ecclesiastico, da una terna nominata dal re, su proposta dell’Intendente, tra i benestanti distintisi per particolari opere di beneficenza. Le riforme, indubbiamente, trasformarono la società napoletana da feudale a borghese, ma non riuscirono a dare al regno una svolta capitalistica; tuttavia il dinamismo avuto durante il Decennio non ci sarà dopo l’Unità d’Italia.
Si deve necessariamente dire che tutti i miglioramenti socio-economici apportati dai Francesi andarono a beneficio del Borbone, che non cancellò l’opera riformatrice dei napoleonidi, anzi ne conservò i risultati, attuando quella che è stata definita dalla storiografia una «restaurazione-rivoluzione»o, in termini gramsciani, una «rivoluzione passiva».