Articolo di Antonio Bianco junior

Gli anni ’50 furono anni di lotte contadine nel Sud Italia. Ma c’è un episodio poco conosciuto nella storiografia delle battaglie sindacali che non ha mai travalicato i confini del territorio in cui si svolse. Parliamo della cosiddetta Marcia della fame. Una singolare protesta organizzata dalla Camera del Lavoro di San Bartolomeo in Galdo, paese dell’entroterra campano in provincia di Benevento, e supportata dalla Cgil e dal Pci locali. Ma ecco i fatti: il 14 aprile 1957, domenica delle palme, disoccupati e braccianti della Valle del Fortore stanchi di una vita di stenti e di miseria decisero di recarsi a piedi a Roma, a circa 250 chilometri di distanza, per protestare sotto Montecitorio in merito alle loro condizioni di vita. Ma i dimostranti, partiti da San Bartolomeo, non arrivarono mai a destinazione perché furono caricati e dispersi dalle forze dell’ordine alle porte di un altro comune sannita, San Marco dei Cavoti. Ecco come descriveva la partenza della marcia Aldo Gambatesa, inviato all’epoca del quotidiano Roma (15.04.1957, pag. 1): “Alle prime luci dell’alba, tra incerto chiarore, abbiamo visto la piazza (di San Bartolomeo) riempirsi gradatamente prima di operai e poi di un imponente numero di tutori dell’ordine. I braccianti, i manovali, gli operai, i contadini, con un piccolo sacchetto sulle spalle si aggiravano come tante ombre per la piazza centrale”.

Un primo gruppo di braccianti, con in testa le donne con i loro bimbi piccoli in braccio, si avviava per sentieri scoscesi, per evitare la strada provinciale bloccata dai carabinieri in assetto antisommossa. L’appuntamento per tutti era al ponte delle “Setteluci”, sul fiume Fortore, dove ai cafoni del grosso comune fortorino si sarebbero uniti quelli provenienti da Montefalcone, da Foiano, da Baselice e da Castelvetere. Ma qui furono bloccati da un imponente schieramento delle forze dell’ordine, decisi a non farli passare. “E così ancora una volta – continua il racconto il cronista del Roma –, silenziosi e tenaci gli scioperanti scomparivano tra gli irti sentieri della montagna. Intanto dal capoluogo continuano ad affluire nella zona maledetta ingenti forze di polizia. Si teme che da un momento all’altro possano verificarsi incidenti”. Per tutta la giornata i braccianti della valle percorsero mulattiere e tratturi, ma quando verso sera giunsero presso San Marco dei Cavoti, trovarono una brutta sorpresa: un cordone di celerini, in assetto antisommossa, aveva sbarrato l’ingresso del paese, prima tappa della loro massacrante marcia. All’altezza del cimitero il capo della polizia fece suonare la carica. Il primo gruppo ad essere investito dai manganelli dei celerini fu quello di Montefalcone. Poi tutti gli altri. Solo un gruppo riuscì a penetrare in paese grazie al sindaco comunista, Camillo Maio, il quale per l’aiuto dato, venne sospeso per tre mesi dal prefetto di Benevento. La mattina presto del giorno dopo il piccolo drappello di braccianti riprese la marcia, ma dopo qualche ora di cammino si imbatté un secondo sbarramento sotto Pesco Sannita. I pochi braccianti rimasti si diedero di nuovo alla fuga, ma furono quasi tutti arrestati e portati in caserma. «La marcia è l’ultimo atto della tragedia del vecchio Fortore», scriverà lo storico Gianni Virgineo.

Le cause dell’amara conclusione della “marcia” sono da ricercarsi, a mio avviso, non solo nella repressione della stessa da parte delle forze dell’ordine, ma in quella più generale della fase storica della politica nazionale di quegli anni, che vedeva il riflusso del movimento bracciantile, la destalinizzazione che travagliava il Pci e l’egemonia politica della Democrazia cristiana, che occupava stabilmente il potere tramite l’assistenzialismo e le politiche clientelari.

Vent’anni dopo la marcia, nel 1977, il regista Ugo Gregoretti, girò un documentario su quei fatti storici. E lo fece seguendo il tour del famoso gruppo cileno degli Inti Illimani, che arrivati a San Bartolomeo dedicarono un murales alla memoria di quella protesta.

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