Articolo di Natale Cuccurese

Il Mezzogiorno in un momento politico ed economico particolarmente difficile e non solo a livello italiano, si presenta con un peso politico ridotto. Ha meno parlamentari rispetto al Nord e al Centro dopo il referendum del 2020 sulla riduzione dei parlamentari e una popolazione in continuo calo demografico. Come se non bastasse subisce anche l’astensionismo forzato alle urne, cioè l’impossibilità di votare per chi lavora – e sono tantissimi – lontano dal luogo di residenza. Un vero e proprio furto di democrazia.

La Repubblica italiana infatti nega i diritti costituzionali fondamentali ai cittadini del Mezzogiorno. Non mi riferisco a quanto già più volte denunciato in questi ultimi anni: dai minori trasferimenti statali rispetto alla percentuale del 34% della popolazione che si riflettono su cure mediche minori (che incidono sulla stessa aspettativa di durata di vita dei cittadini meridionali, più bassa che al Nord), o agli asili, alle scuole senza palestre o mense, alla scarsità di insegnanti, alle infrastrutture, ai Lep mai definiti e ora addirittura differenziati e così via. No, mi riferisco proprio a quanto di più sacro per una democrazia: parlo del diritto di voto e di conseguenza di rappresentanza politica che in larga parte al Sud è negata!

Ai cittadini del Mezzogiorno o almeno a larga parte di loro, è infatti negato il diritto di voto che (solo in teoria) è un diritto costituzionale. Negato, come in una dittatura o come in uno Stato in cui vige l’apartheid conseguente al Razzismo di Stato, pervicacemente applicato al Mezzogiorno dal giorno dell’unità (solo formale) del paese. Il tutto è ovviamente taciuto dai media, così come dalla politica politicante. Ma perché e come è vietata la rappresentanza politica ai meridionali?

Iniziamo l’analisi da quanto accaduto col Referendum del 2020 sul “Taglio dei parlamentari”. Un argomento questo che quasi nessuno ha sottolineato e cioè come la vittoria del Sì al referendumsia stato l’ultimo imbroglio, forse quello definitivo, per il Sud ed i suoi cittadini, aggravando ancor di più la mancanza di rappresentanza del Mezzogiorno in Parlamento e approfondendo la spaccatura già presente nel Paese prima di quella definitiva, già pronta con l’Autonomia differenziata.

La densità di popolazione al Sud parametro per l’assegnazione dei seggi alla Camera e al Senato, è infatti più bassa del Nord, e visto che la desertificazione demografica causata dall’emigrazione forzata cresce di anno in anno, la conseguenza è che il Sud, in un Parlamento ridotto, ha un peso politico ancora minore del precedente. I dati odierni confermano che la crisi demografica che sta colpendo l’Italia riguarda in particolar modo il Mezzogiorno: nel 2050 il Nord e il Centro sommati avranno un milione di persone in meno rispetto ad oggi, mentre il Sud e le Isole ben 3,6 milioni.

Per il 2080 si stima che il 54% della popolazione vivrà nel Nord (contro l’attuale 46%), il 20% nel Centro (come ora) e il 26% nel Sud e nelle Isole (oggi è il 34%). Le regioni meridionali proseguendo con l’attuale andamento si spopoleranno sempre più. In soli 30 anni, guarda caso dall’affermarsi sulla scena politica della Lega Nord, il Mezzogiorno passerà dall’essere la macroarea più giovane del Paese ad essere la più anziana. E tra il 2050 e il 2080, mentre l’età media del Nord e del Centro Italia rimarrà uguale o scenderà, quella del Mezzogiorno crescerà. Nel 2022 non a caso col bando asili (attenzione tutto nero su bianco quindi non equivocabile) si è scoperto, ad esempio, che il governo già prevedeva che l’emigrazione continuerà, forse perché conscio che nulla sarà fatto per riequilibrare le differenze territoriali, cioè che l’emigrazione con l’Autonomia differenziata risulterà maggiorata (dando implicitamente ragione ai dubbi e timori che solleviamo da anni sull’argomento) ed il Sud sarà ancora più desertificato.

Costituzionalmente non sembra accettabile un governo che con anni di anticipo usa simili argomenti per destinare risorse a favore di un solo territorio e nei fatti programma l’emigrazione, a questo punto forzata per volontà politica, di decine di migliaia di cittadini, dal Sud al Nord, invece di operare per risolvere il problema delle disparità territoriali.

Inoltre se un governo programma (stanziando fondi in anticipo a favore delle Regioni del Nord), l’emigrazione di migliaia di persone da una parte all’altra del paese (come è avvenuto nel secolo scorso in alcuni regimi totalitari), questo spostamento si può ancora definire emigrazione o è piuttosto una deportazione programmata? E questo governo che con tutta evidenza non rispetta la Costituzione si può ancora definire democratico o non è piuttosto diventato un regime extra costituzionale a cui è quindi doveroso opporsi?! 

Non a caso si contano in 100mila i giovani che nel 2022-2023 hanno lasciato l’Italia, due terzi più di quelli che sono tornati. Metà partiti dal Nord (dal Sud ormai sono già partiti quasi tutti…). Lo indicano i dati della Fondazione Nord-Est diffusi lo scorso settembre. Il saldo migratorio dei 18-34enni nel 2011-2023 è -377mila. Il dato reale è tre volte più ampio, perché molti mantengono la residenza italiana.

Ovviamente quasi nessuno rileva che quello che oggi succede soprattutto nel Sud Italia, cioè che il numero dei pensionati ha superato quello dei lavoratori, nei prossimi anni accadrà inevitabilmente e con le stesse dinamiche anche nel resto del Paese. Per cui giocoforza bisognerà studiare percorsi di integrazione per gli immigrati extracomunitari e casomai (ma questo va detto piano per non alterare la mente già affaticata di suo dei leghisti al governo) cercare di arginare l’emigrazione di giovani verso l’estero e di quelli del Sud verso i territori della “Locomotiva” (risulta evidente che è inutile emigrare verso la Padania se anche i giovani del Nord emigrano all’estero per mancanza di opportunità e salari da fame).

Ovviamente, come detto, questa riduzione demografica si ripercuote sul numero degli eletti. Oltretutto con la riduzione dei parlamentari Sicilia e Sardegna hanno già adesso minori rappresentanti in termini percentuali al Senato rispetto alle altre Regioni a Statuto speciale, mentre la Basilicata, così come l’Umbria, ha subito il taglio maggiore al Senato, i suoi rappresentanti sono infatti passati da 7 a soli 3 (-57%) e qualsiasi partito sotto la percentuale del 20% dei voti non ha più eletto alcun rappresentante. Inoltre, visto che il Senato è eletto su base regionale, la Sardegna ha un senatore ogni 328mila abitanti, mentre il Trentino-Alto Adige uno ogni 171mila, rendendo evidente la sperequazione per cui il voto di un cittadino trentino vale, in termini di rappresentanza, il doppio di quello di un cittadino sardo.

Non bisogna poi dimenticare che la riduzione degli eletti comporta una loro minore autonomia, visto che su questi si concentrerà maggiormente la pressione di lobby e gruppi di potere, così da spingerli eventualmente a prendere anche decisioni che potrebbero essere contro l’interesse dei territori che dovrebbero rappresentare.

Senza dimenticare che con la riduzione dei seggi disponibili non si è fermata la “transumanza” di politici del Nord verso “collegi sicuri” del Mezzogiorno. I famosi “paracadutati”. Candidati che non hanno collegamenti con il territorio, ma che sono collocati dalle segreterie dei partiti in base alla probabilità altissima di essere eletti. Per cui ora a consuntivo il Sud si trova non solo con una rappresentanza parlamentare territoriale di partenza già inferiore in percentuale rispetto al Nord, come visto sopra, ma questa viene anche ulteriormente ridotta di circa un 25% perché tutti i partiti da destra a sinistra hanno fatto largo uso di “paracadutati dal Nord”. Non a caso provvedimenti scellerati come l’Autonomia differenziata hanno faticato a trovare una opposizione parlamentare consistente anche per questi motivi.

Come scritto nell’introduzione lo scippo di rappresentanza, dopo la riduzione dei parlamentari, si traduce oggi in una ulteriore condizione di negazione di diritti politici grazie al cosiddetto “astensionismo”. Astensionismo che al Sud spesso non è altro che impossibilità, a questo punto espressamente voluta dal potere politico, di recarsi al voto nei Comuni di residenza per tantissimi cittadini meridionali che si trovano al Nord Italia per lavoro, studio o per curarsi. Figli di quell’emigrazione lavorativa, scolastica e sanitaria che continua implacabile da oltre 160 anni e che sta via via desertificando, come visto, le Regioni meridionali. Perché il Parlamento non vara una apposita normativa e permette a questi cittadini di poter esigere un diritto costituzionale, ad esempio di poter votare nel luogo di domicilio o per posta come accade in tanti altri Paesi? In questo quadro non va infatti dimenticato il prezzo alto da pagare, per alcuni impossibile da sostenere, di treni, auto, aerei, per potere tornare al Comune di residenza per votare, che sempre meno cittadini ormai possono permettersi.

Ecco perché quando si sente parlare di astensionismo al Sud più alto che al Nord, bisogna fare la tara con la percentuale dei cittadini che avrebbero voluto esercitare il diritto di voto, caso mai per opporsi alla deriva razzista imperante nel Paese (non a caso nelle ultime elezioni politiche meno di 1 elettore del Sud su 5 ha votato per la coalizione al governo dichiaratamente antimeridionale), ma a cui non è stato permesso di votare da politici che si stanno via via dimostrando sempre più nemici del Mezzogiorno, disinteressandosi del problema o più spesso banalizzandolo e irridendo il dato dell’astensionismo maggiore nel Mezzogiorno, certificando ancora una volta il permanente atteggiamento di disprezzo di ampie fasce delle classi dirigenti nazionali verso ciò che subisce il Sud. Tutto ciò avviene troppo spesso nel disinteresse quasi completo anche delle forze di sinistra, malgrado il Mezzogiorno sia all’opposizione già dal giorno stesso delle ultime votazioni politiche.

Infatti, nel 2022 solo 19 elettori meridionali su 100 hanno votato per la coalizione politica di destra attualmente al governo (30 su 100 al Centro-Nord). Una percentuale bassissima, che non ha precedenti in passato. I cittadini del Mezzogiorno, in larga maggioranza, non hanno votato alle ultime elezioni politiche per la coalizione vincitrice. Cioè che non sono saliti sul carro del sicuro vincitore, smentendo i preconcetti dominanti sul cosiddetto “voto di scambio”. E questo lo si vede bene a posteriori dai provvedimenti, tutti contro il Sud del governo Meloni. Il dato poi è ulteriormente confermato dalle elezioni europee di giugno. Il PD nel Sud, a partire dalle due Regioni amministrate Campania e Puglia dove stravince, è il primo partito con il 24,32% e il campo progressista, PD -M5S-AVS, è largamente maggioritario con il 46,82. Risulta fin troppo evidente che il voto nel Mezzogiorno si esprime contro il disegno di “Autonomia Differenziata” e nel contempo esprime una critica verso il governo per l’assenza di una politica rivolta allo sviluppo del Sud. Contemporaneamente le dimensioni del voto in Puglia e in Campania sono la prova che è diffusa una domanda che ricerca a sinistra punti di direzione e riferimenti a cui poter affidare fiducia. Il Mezzogiorno appare quindi, come mai in passato, già all’opposizione.

Pertanto, come da tempo vado ripetendo, per costruire l’alternativa popolare di sinistra alle parole d’ordine antiliberista, ambientalista, antifascista, femminista e pacifista, va aggiunto meridionalista, visto che il Mezzogiorno non solo è il territorio più povero d’ Europa, ma soffre di discriminazioni e di un razzismo di Stato che addirittura penalizza volutamente anche la durata di vita dei suoi abitanti e quindi ha bisogno di un richiamo e di una sua specificità riconoscibile e riconducibile. Bisogna unirsi tutti su più battaglie, in questo caso sul Mezzogiorno, dandogli voce e rappresentanza. A mio avviso la sinistra può ripartire solo da Sud.

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