di Filomena Castaldo
22 Dicembre 2024. Facevo una passeggiata nel centro porticato di Cava de’Tirreni (Sa) in una fredda mattinata di Dicembre già intrisa di sentori natalizi e mi imbatto, in maniera disinvolta, in Centopagine, una libreria indipendente di cui leggo, su strada, il depliant pubblicitario. Entro e respiro un’aria retrò, avvolgente e curiosa perché spinge ad andare a ricercare, titolo dopo titolo, tra gli scaffali o sui banchetti, qualche libro che riserva qualche parola speciale. Ed io l’ho trovato, come mi capita quando attivo il mio fiuto femmineo. “Femminismo terrone”, di Claudia Funzia e Valentina Amenta. C’è ciò che mi interessa: femminismo, meridionalismo, politica, analisi, tutto condito in termini sfidanti per una sana lettura riflessiva. C’è Terronia. E questo mi intriga ancora di più.
L’ho letto, non tutto d’ un fiato. È denso; i termini nascondono un retroterra storico-filosofico-sociale notevole come la critica che propone. Parlare di “femminismo terrone” significa avviare una profonda rivoluzione culturale in grado di sfidare le convinzioni radicate riguardanti l’identità delle persone meridionali e il Sud nella sua complessità. Quest’ambizione richiede uno sforzo duplice: da un lato si tratta di rileggere la storia dell’Italia alla luce del “pensiero meridiano” […], dall’altro, tenendo testa alla sindrome dell’impostora che grava sui gruppi subalterni, è necessario considerare il Meridione come luogo (da sempre fertile) ai saperi femministi.” (p. 15)
Il femminismo terrone si delinea attraverso un posizionamento tra studi post coloniali, meridionalità e marginalità: uno spazio di resistenza dove bruciare stereotipi istituzionalizzati e pregiudizi interiorizzati, questioni mal poste come quella meridionale e disomogeneità territoriali, a favore di una pluriversalità che faccia emergere dallo sfondo che “l’antimeridionalismo è un problema sistemico che richiede un’analisi sistematica e intersezionale per essere pienamente compreso e contrastato”, (p. 46) per immaginare nuovi equilibri, per dare nuova linfa alla prospettiva femminista terrona. 

Contro la retorica antimeridionalista di lombrosiana matrice, contro l’“invenzione del Sud”, secondo le autrici occorre recuperare tutti quei contributi teorici e quelle esperienze che permetteranno nuove rappresentazioni, chiare possibilità di esistenza volte allo schiudersi della soggettività meridionale. Il potere della narrazione -l’immaginario, le categorie, le parole – produce la forza della soggettività.
L’analisi intersezionale che le studiose propongono del Meridione e dell’antimeridionalismo conferma che l’Altro meridione esiste ancora: trash o pacchiano, esotizzato o criminale, il Meridione mercificato è funzionale all’identità del Nord, a quel liberismo che si nutre della decadenza sfondo mare per esaltare se stesso e usare il Sud come colonia estrattiva, dalle risorse ai corpi. In questo scenario, lo stesso femminismo va ripensato perchè non può continuare analisi semplificanti e unitarie ma ha l’obbligo di tenere conto delle diverse realtà geografiche e sociali, quelle disuguaglianze che la SVIMEZ evidenzia nei suoi Rapporti e in cui la donna “terrona”, anche la più titolata, si muove e rinegozia tutte le categorie.
L’argomentazione, ben cadenzata, prosegue dando vita alla memoria, “quella che ci permette di esistere” e che dà spessore alla resistenza terrona: Giovanna Cristina Vivinetto, Maria Occhipinti, Franca Viola, Rosa Balistreri, i diversi Collettivi danno contenuto alla contro memoria terrona. Ciò che dovrebbero fare, le diverse regioni meridionali a partire persino dalla cura e memoria proprio accento.
Anni fa, partecipando con una mia classe liceale alla trasmissione “Per un pugno di libri” , Corrado Augias, l’allora conduttore, richiamò un mio alunno che era intervenuto, per delle osservazioni, per il suo spiccato accento napoletano adducendo che l’italianità partiva dal non avere accento. Ebbene, se già allora provai un forte senso di fastidio e insofferenza, ora gongolo nel leggere “Perché, allora, le persone meridionali sono costrette a evitare l’uso delle lingue regionali e dissimulare il proprio dialetto e il proprio accento?”. (p. 151) Già, perché? Perchè dissimulare la propria voce, perché vergognarsi? Accondiscendere alla subalternità, ad un potere linguistico, per interloquire è recedere dalla propria lingua ribelle, è fare silenzio. Ed è, invece, questa voce, regionale, selvatica, a cui tendono dare spessore le autrici, secondo un’etica della restanza.
Il femminismo terrone si connota allora come progetto politico, un work in progress intersezionale che dà sangue ad una nuova lotta da condurre nei propri territori: bisogna stare al Sud, anche se è doloroso, bisogna lottare al Sud e per il Sud per sottrarsi al gioco politico manipolativo di un North gaze, bisogna fare memoria per il nostro stare al mondo.

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