di Antonio Salvati
Chi – tra coloro che seguono con passione le vicissitudini e i drammi del nostro Mezzogiorno o dei divari regionali in Italia nell’ultimo secolo – non si è mai chiesto perché i meridionali non esercitano energicamente il loro forte dissenso e la loro ribellione. Perché gli abitanti del sud – malgrado le migrazioni di migliaia e migliaia tra giovani e adulti ogni anno verso il Nord, verso l’Europa e anche verso i Paesi d’oltremare, malgrado la mancanza di infrastrutturazione, che prevede che la stessa distanza possa essere percorsa in ferrovia in una parte d’Italia in un’ora e in un’altra tre volte di più, malgrado un servizio sanitario spesso fatiscente che costringe quelli che se lo possono permettere a raggiungere nel nord un servizio di eccellenza e gli altri spesso a subire trattamenti inadeguati – non reagiscono? Perché – come mi è capitato di constatare recentemente – tanti meridionali accettano con rassegnazione l’ultimo schiaffo, quello dell’autonomia differenziata i cui effetti saranno devastanti? E’ l’interrogativo che solleva Pietro Massimo Busetta nel suo libro a partire dal titolo La rana bollita. Perché il Sud non si ribella (Rubbettino 2024, pp. 174, € 18,00). La prima parte del titolo richiede una spiegazione. La rana bollita è una metafora – spiega Busetta – di Noam Chomsky per descrivere una pessima capacità dell’essere umano moderno: ossia la capacità di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi. L’autore ci ricorda nel dettaglio la metafora del filosofo statunitense:

Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un pò più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un pò, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone.

Busetta considera il periodo storico immediatamente successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Il Meridione conobbe un importante momento di industrializzazione, «attraverso lo strumento della Cassa del Mezzogiorno, con tutti gli slanci e gli squilibri, le criticità che essa ha generato», a partire dalla più drammatica di tutte che è racchiusa nelle parole di Salvatore Romeo, «l’insopprimibile contraddizione tra la salute e il lavoro». Gli esempi sono molteplici come quello dell’Ilva di Taranto:

una macchina lanciata verso il burrone. Una storia di una morte annunciata, che può trascinare con sé delinquenti e galantuomini. Ma che dà una lettura di quello che è stato questo Paese dall’Unità d’Italia in poi. Un Paese che ha considerato il Mezzogiorno come una colonia e su di esso ha consumato tutte le nefandezze possibili.

Tra i due censimenti del 1951 e del 1971 si registra l’esodo di oltre quattro milioni di meridionali: poco meno di tre milioni dal Mezzogiorno continentale, oltre un milione dalla Sicilia. E oggi malgrado le risorse abbondanti disponibili non sembra ci sia un vero piano ancora per il Sud con obiettivi quantitativi dichiarati. Eppure questo dovrebbe essere il primo obiettivo del Recovery Plan. Perché la macchina del Nord che si è fermata per la pandemia, può rischiare di ripartire con un ritardo magari di qualche mese in più, «ma il Mezzogiorno rischia la sua stessa sopravvivenza demografica se continua quel processo di spopolamento ormai decennale, mentre il Paese da un’area in crisi non può che avere conseguenze destabilizzanti». Già queste prime considerazioni rinviano a quanto ci ha detto l’ex rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth Jonathan Sacks – filosofo, divulgatore e intellettuale pubblico di fama mondiale – dalle pagine di Morality, la sua ultima fatica ora tradotta anche in italiano (Moralità. Ristabilire il bene comune in tempi di divisioni, Giuntina, 416 pp.) che si è spento pochi mesi dopo la pubblicazione del volume, nel novembre 2020:

Quando ci spostiamo dalla politica dell’’Io’ a quella del ‘Noi’, riscopriamo quelle verità contro-intuitive che trasformano la vita: che un paese è forte quando si prende cura dei deboli, che diventa ricco quando si occupa dei poveri, che diventa invulnerabile quando presta attenzione ai vulnerabili. Se ci sta a cuore il futuro della democrazia dobbiamo recuperare quel senso di moralità condivisa che ci unisce l’uno all’altro in un legame di compassione e attenzione reciproche.

Il rapporto del Paese nei confronti del Sud è stato sempre molto conflittuale e in ogni caso di incomprensione. Una parte lo ha ritenuto sempre diverso e incomprensibile. Viene alla mente il discorso tra Chevallier e il principe Don Fabrizio riportato nel noto romanzo Il gattopardo che ben esprime tutta la distanza tra due mondi. Da un lato il principe che sa che i suoi corregionali si sentono degli Dei: «ma quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità». Dall’altro la certezza del piemontese di riuscire a cambiare il mondo: «Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna cambierà tutto». Da allora in poi, potremmo dire che il Nord ha guardato al Sud come a una colonia alla quale si poteva insegnare tutto, ossia – spiega Busetta – dal modo in cui lavorare, al un modo in cui gestire la cosa pubblica, a come impostare i rapporti familiari, considerando il familismo meridionale sinonimo di aggregazione criminale. Il passaggio successivo al disprezzo, che si manifesta nei famigerati avvisi in cui era scritto “Non si affitta a meridionali”, fornisce il senso del rapporto con quei poveri disperati che arrivano dagli anni Sessanta in poi a lavorare nelle terre nebbiose del torinese o del milanese. Questo approccio è rimasto tale nel tempo, «tanto che il miglior complimento che potevano fare a chi si rapportava e con grande stupore degli “indigeni” si comportava in maniera corretta, efficace ed efficiente, era di dirgli: non sembri nemmeno meridionale». Le parole di Vittorio Feltri che afferma che i meridionali sono inferiori è summa di quello che molti pensano ma non dicono.
Il volume di Busetta è un compendio degli “schiaffi” ricevuti dal Mezzogiorno dalla fine delle Seconda guerra mondiale. Il Meridione conobbe un importante momento di industrializzazione, «attraverso lo strumento della Cassa del Mezzogiorno, con tutti gli slanci e gli squilibri, le criticità che essa ha generato», a partire dalla più drammatica di tutte che è racchiusa nelle parole di Salvatore Romeo, «l’insopprimibile contraddizione tra la salute e il lavoro». Gli esempi sono molteplici come quello dell’Ilva di Taranto:

una macchina lanciata verso il burrone. Una storia di una morte annunciata, che può trascinare con sé delinquenti e galantuomini. Ma che dà una lettura di quello che è stato questo Paese dall’Unità d’Italia in poi. Un Paese che ha considerato il Mezzogiorno come una colonia e su di esso ha consumato tutte le nefandezze possibili.

Oltre l’Ilva di Taranto, ci sono le tristi vicende di Bagnoli, di Augusta, di Milazzo e Gela; tutte realtà notevoli dal punto di vista paesaggistico e rovinate dagli insediamenti industriali. Da non dimenticare, infine, tutta la vicenda della Fiat di Termini Imerese.
Occorre considerare che quando parliamo di Mezzogiorno, ci riferiamo ad un’area molto grande e molto abitata. Una realtà dove lavora solo una persona su quattro, sei milioni e trecentomila occupati su 20 milioni di abitanti. Dove al massimo in una famiglia di quattro persone vi è una persona che lavora, spesso in nero, perché nei sei milioni e trecentomila è compreso quel 30% di sommerso, equivalente a un milione 890mila persone. Sono numeri enormi quelli che caratterizzano il Mezzogiorno, che lo dimensionerebbe, se fosse un Paese dell’Europa, tra i sette maggiori per popolazione, «trattato purtroppo dall’Italia come se fosse una piccola realtà con soli 340mila abitanti, come la Corsica. E che un Paese grande come la Francia si può consentire forse anche di mantenere». Un Mezzogiorno i cui valori si distanziano sempre di più dal resto del paese, come attestano dati dell’ISTAT. Infatti, l’Italia resta una nazione a due velocità, con redditi e tenori di vita sempre più divergenti. L’Istat nel suo Report sui conti economici territoriali relativo al 2023 rileva che le famiglie del Sud possono contare su entrate assai più modeste, poco più della metà di quelle che risiedono e lavorano al Nord. Una forbice che supera la soglia dei 18mila euro e si è allargata negli ultimi due anni. Con 44mila e 700 euro nel 2023, quasi tremila in più rispetto al 2022, il Nord-Ovest resta l’area del Paese con il Pil per abitante più elevato misurato in termini nominali. Seguono il Nord-Est e il Centro, con 42mila e 38mila euro. Il Mezzogiorno si conferma ultimo, con quasi 24mila euro.
Nell’elencazione dei torti subiti dal Mezzogiorno, risalendo perlomeno dalla fine della Seconda guerra mondiale, non vi è che l’imbarazzo della scelta. Ogni volta che si è progettato un intervento, si è organizzato perché arrivasse al massimo fino a Napoli, quindi nel migliore dei casi fino a metà della Campania (si veda per tutti il caso emblematico dell’Autostrada del Sole, che ha già festeggiato il suo cinquantesimo compleanno, che partiva da Milano e arrivava a Napoli). Il resto dello stivale, corrispondente a oltre 15-16 milioni di abitanti, veniva abbandonato a sé stesso. Coloro che progettavano non si rendevano conto che lasciare tutto lo Stivale e le Isole senza interventi, in particolare infrastrutturali, significava non avere le condizioni minime per lo sviluppo, «oppure – osserva Busetta – si rendevano conto perfettamente di tale carenza, ma ritenevano che nella priorità del Paese ci fosse quella di investire su una parte e poi per gli altri si sarebbe visto». Lo stesso piano Marshall – concepito dopo la Seconda guerra mondiale dagli Stati Uniti d’America per aiutare gli europei a ricostruire il territorio e il sistema produttivo – in realtà è servito esclusivamente ad aiutare e potenziare l’industria del Nord. Ovviamente a scapito di destinare risorse a quella che era già diventa una colonia da cui estrarre giovani formati, dove localizzare impianti estremamente inquinanti, peraltro utilizzando le risorse che in teoria dovevano servire per industrializzare il Mezzogiorno, da utilizzare quale mercato di consumo. L’intervento statunitense, anch’esso un Recovery Fund, durò dal 1947 al 1951 con una destinazione di fondi mai vista. I Paesi che ricevettero le quote più cospicue, superando i mille milioni di dollari, furono il Regno Unito (3.297 mln$), la Francia (2.296 mln$), l’Italia (1.204 mln$), i Paesi Bassi (1.128 mln). La classe dirigente italiana nazionale dell’epoca ritenne opportuno rafforzare la struttura produttiva industriale localizzata quasi esclusivamente al Nord (Milano, Torino e Genova), perdendo di vista l’obiettivo dell’unitarietà del sistema Italia e l’esigenza comune nella risoluzione dei grandi problemi strutturali dell’intero Mezzogiorno.
L’emigrazione nel mezzogiorno non avviene soltanto per cercare il lavoro. L’abbandono delle terre meridionali è un processo che scaturisce anche dalla convinzione che per avere alcuni diritti bisogna andarsene dal Sud, soprattutto dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata. Tanti sono convinti che tale realtà sia irredimibile. O quanto meno che non vi siano possibilità di miglioramento nel breve termine tali da consentire di poter rimanere avendo un welfare simile a quello degli abitanti delle regioni settentrionali. Pertanto, l’unica alternativa è quella di fuggire. Non si resta a cercare il lavoro perché non è quello l’unico obiettivo. Tutti pensano alle carenze della sanità, alle difficoltà della formazione, ai problemi di mobilità e, invece di lottare in gruppo perché la situazione cambi, risolvono il problema individualmente andando via.
La migrazione sanitaria, o i cosiddetti “viaggi della salute”, rappresentano un fenomeno sempre più diffuso, anche a livello globale fuori dai confini del nostro paese, che coinvolge individui e famiglie in cerca di una prestazione sanitaria migliore rispetto a quella offerta nella propria zona di residenza. Questo movimento migratorio è alimentato da una serie di fattori, tra cui la ricerca di cure specialistiche, la disponibilità di tecnologie mediche avanzate, il miglior accesso a farmaci e terapie innovative, nonché la possibilità di beneficiare di un sistema sanitario più efficiente e di qualità superiore.

La mobilità sanitaria – secondo un rapporto della Fondazione Gimbe – è un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche, che riflette le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese. Un gap diventato ormai una “frattura strutturale” destinata ad essere aggravata dall’Autonomia Differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute. Una frenata, guardando gli ultimi dati rispetto a quelli precedenti, c’è stata. Ma lo spostamento dei pazienti residenti in una Regione che scelgono di curarsi in un’altra, muovendosi quasi sempre dal Mezzogiorno verso il Nord del Paese, è un fenomeno tutto italiano. E nemmeno la pandemia da Covid-19 è riuscita ad arrestarlo.

I dati diffusi dalla Fondazione Gimbe sono inequivocabilmente chiari. La migrazione sanitaria, soltanto nel 2020, ha determinato il trasferimento di 3,3 miliardi di euro dalle Regioni meridionali verso quelle più attrattive. Gli ospedali scelti per curarsi dagli italiani che vivono al Sud si trovano principalmente in tre Regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Questo flusso di persone, oltre ad avere un impatto sulla qualità della vita dei malati e dei loro accompagnatori, «rappresenta anche una delle principali disuguaglianze che si registrano nel nostro Paese», come sostiene il rapporto sulla mobilità sanitaria in Italia nel 2020. L’emergenza Sud si evince però dai dati negativi riportati dalle altre Regioni: dai quasi 223 milioni spesi dalla Campania ai 124 milioni liquidati dalla Puglia per coprire le spese sanitarie erogate altrove nei confronti dei propri cittadini. Nel mezzo, il Lazio (-202 milioni) e la Sicilia (-173,3 milioni). Più indietro, anche in ragione del numero di abitanti inferiore, l’Abruzzo (-84,7 milioni), la Basilicata (-62,4 milioni) e la Sardegna (-57,6 milioni). I pazienti provenienti da queste aree del Paese, come dalle altre, scelgono di curarsi soprattutto negli ospedali di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, a cui si affida oltre un malato su 2. È verso questi territori, infatti, che si concentra quasi la metà (49,4%) della mobilità attiva. A seguire ci sono il Lazio (8,4%), il Piemonte (6,9%) e la Toscana (5,4%). Dati che documentano una realtà incontrovertibile: tra le Regioni del Centro-Sud, soltanto il Lazio è in grado di attirare pazienti (di varia natura) verso gli ospedali del proprio territorio. E anche in questo caso è il valore delle strutture private convenzionate – su tutte: il policlinico Gemelli, il Campus Biomedico e l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma ‒ a determinare la quota più rilevante della mobilità sanitaria in entrata (62,6%).
C’è poi il capitolo istruzione, soprattutto quella universitaria. Nel 2018 circa 158 mila studenti meridionali risultavano iscritti nelle Università del Centro-Nord. Un fenomeno divenuto via via più consistente nel corso degli ultimi anni, come attesta uno studio della Svimez. Poiché nello stesso anno – spiega Busetti – il totale degli studenti meridionali iscritti a un qualsiasi Ateneo era di circa 685mila, c’è stata una perdita netta di circa il 23% del totale della popolazione universitaria del Mezzogiorno. Gli effetti complessivi, diretti e indiretti, prodotti dalla migrazione universitaria sul Pil del Mezzogiorno e del Centro-Nord sono importanti. Le conseguenze negative per il Meridione sono, innanzitutto, la progressiva perdita di capitale umano altamente qualificato, che nel lungo periodo rappresenta un forte freno alle capacità di sviluppo delle regioni meridionali. Le vicissitudini legate all’istruzione portano Busetta a ritenere

che chi ha avuto il timone della barca Italia, cioè la classe dirigente del Nord, così come ha deciso che l’Autostrada del Sole avrebbe visto il sole tramontare dietro il Vesuvio e l’Alta Velocità si sarebbe fermata nel Golfo di Salerno, ha anche pensato che si poteva evitare di contrastare l’altissima dispersione scolastica, considerato che il costo per combatterla sarebbe stato troppo elevato, o che l’introduzione del tempo pieno poteva essere ritardata al Sud, così come poteva fare a meno il popolo meridionale degli asili nido, visto che tutto sommato le donne non avevano un lavoro e quindi potevamo accudire ai bambini.

Ovviamente l’effetto moltiplicativo di tutti questi fattori non poteva che portare a una realtà poco consapevole sia dei propri diritti, «ma anche dei propri doveri, poco informata, con una capacità limitata di interpretare il mondo, ma con il diritto all’elettorato attivo che evidentemente avrebbe esercitato in modo non consapevole». Facile preda di quella classe dominante che invece di avere come obiettivo il bene comune,

perseguiva il bene delle proprie bande e dei propri accoliti. Per la quale i diritti dei sottoposti cittadini venivano trasformati in favori che avevano come controparte il voto dei sudditi e dei propri familiari, in uno scambio scellerato, comodo per la classe dirigente nazionale che aveva negli ascari i propri sgherri, dai quali con poche mancette riusciva ad avere quel consenso che poi serviva a gestire il Paese.

Busetta si rivolge alle coscienze e alle voci di tanti suoi conterranei, in particolare agli intellettuali: «Il cambiamento avverrà quando l’intellighenzia del Sud si convincerà di essere stata colonizzata e colpita nella sua carne viva: l’emigrazione dei suoi figli e nipoti, che prima riguardava solo le fasce più povere, ma che sempre più la ferisce al cuore». È il grido della rana che prende coscienza di essere stata presa in trappola e rifiuta di subire il suo destino. E, come tutte le grida, non si sottomette alle regole di una composta esercitazione critica né obbedisce ai criteri ingessati del policallycorrect. L’autore parla senza curarsi di scandalizzare il lettore con i suoi giudizi, a volte estremi, anzi con l’evidente intenzione di provocarlo e di scuoterlo. Questa politica di emarginazione e di sfruttamento del Mezzogiorno continua ancora oggi. Una particolare attualità hanno le analisi di Busetta riguardo al progetto dell’autonomia differenziata, varato dal governo Meloni. «La nostra Costituzione prevede che ciascuno versi le proprie imposte sulla base del reddito prodotto. Si chiama sistema progressivo e parte dal principio che ciascuno deve contribuire alle spese dello Stato in funzione della propria capacità di reddito». L’idea su cui si basa l’autonomia differenziata è, al contrario, che «ognuno deve tenersi i soldi che produce». La prima conseguenza è la crisi della solidarietà che lega le regioni italiane. Quello dell’autonomia differenziata è «un progetto suicida per il nostro Paese, che è facile porti a forme di secessione e di frattura dell’unità nazionale». Anche dal punto di vista economico, osserva l’autore, «l’unico modo per far ripartire tutto il Paese» è «di investire in modo massiccio al Sud», sfruttando la posizione geografica dell’Italia, in «un Mediterraneo ritornato a essere il centro del mondo, con un’Africa che sarà il continente degli anni 2000». Questa è «l’unica strada maestra per riportare l’Italia protagonista tra i Paesi fondatori dell’Europa». Molti osservatori hanno attribuito proprio a una reazione al progetto dell’autonomia differenziata la crescita allarmante dell’astensionismo alle recenti elezioni europee, nelle quali il fenomeno ha superato per la prima volta il 50%, a livello nazionale, proprio a causa del bassissimo tasso di partecipazione registratosi nella circoscrizione Isole (Sardegna e Sicilia) e nella circoscrizione Sud, rispettivamente 37,31% e 43,73%. La gente del Meridione si sente tradita e abbandona da uno Stato da cui non si vede rappresentata. Una conferma di quanto l’autore denunzia nella sua analisi. Potremmo dire che vi sono motivi in per recarsi responsabilmente alle urne. Come tutte le posizioni univoche, anche questa di Busetta, è vero, rischia di essere unilaterale e di non dare spazio ad alcuni aspetti alternativi della realtà. Ma da una rana che sta bollendo non si possono pretendere giudizi asetticamente calibrati. E forse quello che viene chiesto al lettore, più che di esercitarsi in un’astratta valutazione accademica, è di uscire una buona volta dall’indifferenza e dal sonnambulismo.

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