di Antonio Salvati
La storia d’Italia è legata indissolubilmente a quella del continente africano. Un rapporto spesso dimenticato dai più. Eppure, in Italia possiamo vantare un dignitoso bilancio degli Studi africanistici. È assai arduo dar conto – sia pur in forma succinta – della panoramica degli studi africanistici in Italia. Da decenni gli storici africanisti italiani sono impegnati a reperire ed inventariare fonti utili e indispensabili per la storia dell’Africa. In virtù anche di tutte quelle attrezzature metodologiche proprie della ricerca storiografica più generale presenti nel nostro paese. Infatti, grazie ad un’antichissima consuetudine con l’Africa, possediamo sul piano africanistico un patrimonio documentario inestimabile: basti pensare innanzitutto ai fondi giacenti presso gli archivi ecclesiastici (quelli vaticani in primis, ma pure quelli conservati presso le sedi centrali e periferiche dei grandi ordini missionari). Certamente la storiografia africanistica italiana ha contribuito a far sì che oggi l’immagine dell’Africa “vista dall’Italia” sia più aderente alla realtà di quanto non lo sia stata sino a non molti anni or sono. Ne è prova anche l’ultimo volume dello studioso dell’Africa contemporanea Paolo Borruso, L’Italia e l’Africa. Strategie e visioni dell’età postcoloniale 1945-1989, (Laterza 2024, pp. 288 € 22). Lo abbiamo incontrato. Di seguito il resoconto dell’interessante conversazione.
Prof. Paolo Borruso, molto è stato scritto sul colonialismo italiano, ma lei affronta un tema nuovo … perché ha deciso di scrivere su questo tema?
Sì, è vero, la storia dei rapporti tra l’Italia e l’Africa è stata affrontata principalmente in relazione al periodo coloniale. A partire dagli studi di Angelo Del Boca, la letteratura su questo tema è ormai proficuaedha portato alla luce le complesse articolazioni, nonché i risvolti oscuri e tragici provocati dall’espansionismo italiano, liberale prima e fascista poi. Io stesso ho scritto su quelle vicende, di cui è noto il mio volume “Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia”, pubblicato nel 2020 sempre da Laterza, in relazione alla strage di monaci e pellegrini messa in atto dal maresciallo Rodolfo Graziani nel maggio ’37 presso il santuario di Debre Libanos in Etiopia. Ed è comprensibile, e anche necessario, uno spiccato interesse storiografico peril colonialismo italiano, dopo i silenzi dei decenni del dopoguerra, qualesnodo imprescindibile nei rapporti tra l’Italia e l’Africa, anche per i suoi lasciti, oltre la sua drastica fine. Penso, qui, alla riemersione di vecchi stereotipi del “Nero” in congiunture di particolare crisi come quella attuale, relativa al crescente fenomeno immigratorio,che pare rivelare il radicamento di una costruzione culturale ambigua e contraddittoria, elaborata o sorta d’istinto dall’«incontro-scontro» tra colonizzatore e colonizzato.Per questo, ho avvertito l’esigenza di una riflessione di più ampio respiro e di lungo periodo sul rapporto tra l’Italia e l’Africa, che non si è esaurito con l’esperienza coloniale, e che potesse mettere in luce alcuni nodi di una storia che giunge fino ad oggi, o almeno potesse spiegarne alcuni sviluppi. Da tempo si parla di “Piano Mattei”, di cui si intravedono contenuti non ancora definiti. Mi sono chiesto perché non andare alle radici … dunque, ripartire dalla storia, una storia che appare oggi appannata, perché ancora non ricostruita in tutte le sue articolazioni. Il mio libro ha inteso mettere in luce alcuni nodi, certamente da approfondire e neppure esaustivi, ma proposti con un approccio storico, senza il quale sembra difficile elaborare visioni e prospettive per il presente e il futuro… non ci nascondiamo il progressivo processo di deculturazione e di allontanamento delle generazioni politiche di questi ultimi decenni da quella che il grande storico Henri-IrenéMarrou chiamava «la conoscenza storica», l’unica in grado di fornire strumenti per comprendere gli eventi nel loro dispiegarsie coglierne la portata di possibili sviluppi.
Dunque, Lei individua un punto di partenza nella perdita dei possedimenti coloniali e nel nuovo corso di un’Italia democratica senza più colonie: quali sono state le percezioni e le strategie adottate, in Italia, nei confronti del continente africano, dopoil crollo del suo impero coloniale?
Sì, è giusto ripartire dalla perdita delle colonie, avvenuta nel corso della seconda guerra mondiale. L’Italia perde le sue colonie africane tra il 1941 e il 1943, si tratta dunque di una “decolonizzazione precoce” e forzata: l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia vengono occupate dall’esercito britannico nel ’41, la Libia nel ’43, a seguito dell’offensiva alleata in Nord Africa contro le forze dell’Asse italo-tedesco. Una disfatta che la generazione coloniale italiana aveva vissuto come un’onta, il crollo di miti e aspettative largamente propalate dal regime fascista. Certo, l’Italia esce dalla guerra con un altro volto rispetto a quello con cui vi era entrata: il regime fascista, che l’aveva condotta alla guerra, era caduto nel ’43, e il 25 aprile 1945, con l’ingresso delle formazioni partigiane a Milano e l’arrivo delle forze anglo-americane, a prevalere è l’Italia della Resistenza, della nuova cultura democratica. È, questo unodei nodi che permette di comprendere anche l’atteggiamento del paese verso le ex colonie: l’Italia di De Gasperi, democratica, intende chiudere per sempre con l’esperienza fascista, ma permane l’ambizione alle colonie, almeno quelle prefasciste, che viene però negata dai trattati di pace del ’47 con l’imposizione della rinuncia. Da quel momento, tutta l’esperienza coloniale viene rimossa dalla coscienza collettiva: è quella che Nicola Labanca ha chiamato “amnesia” collettiva, ma anche della stessa classe politica, e questo spiega perché il tema coloniale e africano viene totalmente oscurato nel periodo della ricostruzione, gli anni ’50. Eppure, l’Africa non scompare del tutto nella politica della nuova classe dirigente cattolica e nella visione della Chiesa cattolica, che colgono importanti segnali di cambiamento nel continente africano e l’esigenza di una nuova proiezione dell’Italia in Africa, non più legata ai vincoli coloniali, diversamente dalle altre potenze coloniali ancora in possesso di vasti imperi coloniali, benché in crisi. È una carta che l’Italia, con una certa scaltrezza politica, riesce a giocare nel confronto con i rapidi processi di indipendenza, a partire dalla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60: l’onta della “decolonizzazione precoce” diviene, così, un’opportunità per un ruolo internazionale che, per così dire, sembra proporre un approccio paritario, libero dall’ottica coloniale, con un’Africa indipendente e soggetto storico. Penso, qui, all’impegno del ministro degli esteri Fanfani per una soluzione politica della guerra di liberazione in Algeria tra la fine degli anni ’50 e il ’62 (quando termina il conflitto), affiancato da personalità che assumono posizioni favorevoli all’indipendenza dal colonialismo europeo, come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira e il presidente dell’ENI Enrico Mattei, benché distanti dalle derive violente di alcune transizioni, come ad esempio il Congo. L’emancipazione africana viene percepita, insomma, come un processo storico irreversibile, fondato sul diritto ad una dignità storica sin allora negata.
Lei pone l’attenzione sui Trattati di Roma del 1957 quale data di avvio di un nuovo rapporto tra l’Europa, l’Italia e l’Africa. Può spiegare questo passaggio?
I trattati di Roma del 1957 prevedono al titolo IV l’istituzione dell’Associazione tra CEE e paesi africani indipendenti.Si tratta di un’esperienza cruciale per l’Italia, che trova lo spazio per proporsi come elemento di mediazione tra Europa e Africa, contando sulla sua posizione geografica quale propaggine sud dell’Europa, naturalmente proiettata verso la sponda africana.L’impegnodella classe politica, principalmente cattolica, si articola nella costruzione di una rete di contatti e relazioni e nella stipula di importanti accordi economici. In questa prospettiva i suoi interessi oltrepassano l’orizzonte militato agli ex possedimenti coloniali e si proiettano verso le realtà emergenti della nuova Africa. Ma l’Italia è ancora un paese in ricostruzione, non ha le forze per poter mettere in campo una politica di grande peso a livello internazionalee, nello specifico, nei rapporti euro-africani, se non nell’ambito di istituzioni più larghe, come appunto la CEE, o anche l’ONU. È la politica perseguita dall’on. democristiano Mario Pedini, convinto di dover superare del tutto i vecchi approcci coloniali con un’Africa in tumultuosa trasformazione, il quale s’impegna in una rete di rapporti personali a tutto campo con i nuovi leader africani: con un vivo senso della storia, Pedini intende spendersi nella costruzione dell’Associazione euro-africana, unica prospettiva di sviluppo sia per l’Africa che per l’Europa negli equilibri dell’ordine internazionale uscito dalla guerra mondiale. Sul piano storico sono emersi punti critici sui risultati di questa politica associativa, ma è da notare che su queste basi prende avvio la politica di cooperazione, quale si sviluppa tra gli anni ’70 e ’80: si tratta di una stagione di grande estroversione della politica italiana, che credeva in quella che il sindaco di Firenze Giorgio La Pira chiamava la “comunanza di destini” tra Europa, Italia e Africa, una visione di interconnessione prodotta da una storia di lungo periodo, passata attraverso l’esperienza dell’Africa colonizzata, subordinata agli interessi europei, e, successivamente, l’emersione di un’Africa emancipata e soggetto protagonista della storia. Insomma, la netta recisione tra l’Europa e l’Africa reclamata da molti leader delle indipendenze sarebbe stata fatale per lo sviluppo non solo africano ma anche europeo. È una visione che Pedini condivide con Aldo Moro, ministro degli esteri dal ’69 al ’74, in qualità di sottosegretario. Moro avvia, infatti, una diplomazia euro-africana, convinto che l’Africa abbia un ruolo determinante nella soluzione degli squilibri e delle tensioni del mondo contemporaneo e che il quadro euro-africano sia il contesto decisivo in cui l’Italia deve muoversi e lavorare per un graduale avvicinamento ed un reciproco arricchimento tra la cultura europea e quella africana. In questo slancio di estroversione, tra gli anni ’70 e ‘80 emergono esperienze significative di impegno in campo associazionistico e istituzionale, come nel caso del comune di Reggio Emilia, a sostegno delle lotte per la liberazione delle colonie portoghesi (Angola, Mozambico, Guinea Bissau, Capoverde) e contro l’apartheid sudafricano.
Tra gli attori più incisivi figura anche la Chiesa cattolica: in cosa consiste il suo contribuito ad imprimere una spinta decisiva alle proiezioni africane dell’Italia?
Dalla Chiesa cattolica è giunta una spinta determinante ad una proiezione dell’Italia verso l’Africa postcoloniale. L’Italia, infatti, è una “nazione cattolica” – com’è stata definita da Andrea Riccardi – e gode dell’unicità di un rapporto privilegiato con la Santa Sede per essere il centro della cristianità. Qui, mi riferisco soprattutto alle attenzioni che i pontefici, da Pio XII a Paolo VI, rivolgono alle sorti del continente africano, dove il cristianesimo aveva avuto un radicamento inedito a tutto campo tra Ottocento e prima metà del Novecento: attenzioni che rivelano un acuto senso delle prospettive storiche nei confronti di un continente, di cui riconoscono il diritto all’emancipazione e ad un protagonismo nella storia. Penso anche al mondo missionario italiano, il cui impegno aveva contribuito largamente all’espansione del cristianesimo in Africa: l’emancipazione africana induce ripensamenti e prospettive rinnovate di un approccio missionario rimasto a lungo legato all’espansionismo coloniale europeo, al punto da travisare in molti casi la figura del missionario europeo con quella del colonizzatore, e per questo inviso al momento delle indipendenze. Qui, si verifica una svolta fondamentale: l’Africa si emancipa dal vincolo europeo, con numerosi rimpatri di coloni europei, ma i missionari scelgono in gran parte di rimanere accanto alle popolazioni che sentivano loro affidate, nonostante la fine dell’appoggio europeo e le violente crisi che esplodono in diverse aree dei nuovi Stati indipendenti, provocando spesso vittime tra gli stessi missionari. Le missioni si svincolano definitivamente dalla presenza europea e tentano di contribuire alla crescita dei nuovi stati indipendenti. È il caso, ad esempio, del comboniano p. Tarcisio Agostoni, in Uganda, che intende proporre una prospettiva democratica e laica, ispirata al modello della Democrazia Cristiana, per lo sviluppo di un sistema di partecipazione popolare alla vita politica del paese. Il suo esperimento tuttavia fallisce nel vortice degli squilibri etnico-religiosi interni, ancora influenzati dall’ex colonizzatore britannico. Ma ci sono molte storie di missionari e cristiani africani autoctoni, che testimoniano una fedeltà al loro mandato pagata a caro prezzo, proprio perché prive di quella protezione offerta in precedenza dai governi coloniali. Andrea Riccardi – nel suo volume “Il secolo del martirio” – ha messo in luce le significative storie di missionari – religiosi, religiose, laici – caduti sul terreno come bersagli inermi delle fazioni in lotta. C’è, poi, il Concilio Vaticano II, tra il ’62 e il ’65, che rivolge un’attenzione particolare verso un’Africa cristianizzata, con la nascita e l’affermazione di Chiese autoctone, animate dagli stessi africanie avviate in una prospettiva di sviluppo autonomo anche sul piano religioso. Per la prima volta, al Concilio Vaticano II compare una nutrita rappresentanza di vescovi africani autoctoni. Paolo VI, che porta a termine l’assise conciliare, è il primo pontefice a mettere piede in Africa in un celebre viaggio in Uganda, nel ’69, per la commemorazione di martiri cristiani ugandesi a fine Ottocento, durante la quale esordisce con l’esortazione ai fedeli africani “siete ormai missionari di voi stessi”, riconoscendo lo sviluppo di una Chiesa autenticamente africana. Inoltre, Paolo VI dedica all’Africa un intero documento, “Africae terrarum”, il primo nella storia della Chiesa, in cui ravvisa l’alto valore delle culture africane ed il contributo che esse possono offrire allo sviluppo dell’umanità. Sulla spinta di questi eventi, in Italia si sviluppa una rete di movimenti e associazioni, pur legati agli ambienti missionari, ma animati da laici, capaci di coinvolgere i giovani, specie nel mondo studentesco, e di esprimere una sensibilità inedita di passione e impegno verso i nuovi orizzonti del continente africano. Ci sarebbe molto da dire, poi, sulla premura particolare di Giovanni Paolo II, definito “papa africano” dallo storico Claude Prudhomme per i suoi numerosi viaggi nel continente e l’attenzione da lui rivolta all’Africa, oltretutto, sollecitata dall’emergente fenomeno immigratorio, che fa del suolo italiano l’approdo più facilmente raggiungibile dal Nord Africa, dal Corno e dalle regioni subsahariane: la presenza di africani in Italia favorisce la nascita di timori e incertezze, fino ad episodi di esplicita xenofobia. È in questo nuovo scenario che si manifestano le prime proposte organizzative, specie in campo cattolico, per affrontare la condizione dei nuovi arrivati e contrastare il disagio della società italiana di fronte a una coabitazione inedita e percepita come forzata.
La proiezione dell’Italia si esplica, tuttavia, non solo in campo politico-istituzionale, ma anche a livello di società civile, attraverso l’impegno associazionistico … ne può dare qualche tratto?
Questo della società civile è un aspetto importante e per nulla secondario, in quanto si tratta di un coinvolgimento collettivo nell’affrontare questioni di forte impatto sull’opinione pubblica. Uno degli eventi più significativi riguarda la mobilitazione civile a sostegno delle popolazioni del Biafra tra il ’67 e il ’70, ostaggio di una guerra civile devastante, la crisi più grave dell’Africa postcoloniale, che provoca circa tre milioni di morti, non solo per le violenze, ma anche per fame ed epidemie. È una guerra che ha un forte impatto per le immagini trasmesse attraverso la TV e i telegiornali. A sollecitare la mobilitazione per la raccolta di vestiario, generi alimentari e sanitari interviene, in particolare, il mondo cattolico, in gran parte coordinato dalla Caritas Internationalis. Ed è lo stesso papa Paolo VI ad intervenire personalmente in tentativi di mediazione per la soluzione del conflitto. Una questione di grande rilievo è anche quella dell’Africa australe, provata dagli anni ’60 dalle guerre di liberazione nelle colonie portoghesi (Guinea Bissau, Angola, Mozambico, e le isole di São Tomè, Principe e Capo Verde), che ottengono l’indipendenza nel1974-1975, in connessione con l’altra grave questione che riguarda il Sudafrica dell’apartheid: si tratta della contraddizione più evidente dell’Africa postcoloniale, dove continua a persistere un regime di egemonia bianca in un contesto di ormai riconosciuta autodeterminazione. La questione sudafricana diviene una delle più rilevantineldibattitopubblicoitalianoeneglischieramentiinternazionali. Pur con ritardo, l’Italia manifesta un’adesione crescente, lungo gli anni ’80, al movimento internazionale antiapartheid, sia per coordinarsi con le politiche degli alleati atlantici ed europei sia a livello di mobilitazione civile. Il dibattito parlamentare sulla strategia da adottare cogli interlocutori sudafricani per orientarne il movimento di lotta in senso democratico, nonché sul mantenimento delle sanzioni, deve confrontarsi con la posizione di molteplici attori internazionali, comel’Onu e la Cee, non assimilabili nel quadro rigido della Guerra fredda.D’altro lato, sul piano della società civile, si moltiplicano le iniziative di solidarietà messe in atto in campo associazionistico da partiti, sindacati, organizzazioni giovanili di sinistra e del mondo cattolico, non ultimedaesperienzesignificativedientilocali,comeilComune di Reggio Emilia, dove l’assessore Giuseppe Soncini mette in campo una rete di aiuti alimentari e sanitari diretti principalmente in Mozambico a sostegno della lotta di liberazione; vi è, poi, l’Ipalmo, la cui rivista “Politica internazionale” diviene un riferimento di notevole spessore per studiosi e nuove generazioni studentesche e ospita vivaci dibattiti sulla prospettiva euro-africana. In questo contesto si distingue l’impegno della Comunità di Sant’Egidio nei confronti del Mozambico, premessa di un lavorio diplomatico che avrebbe condotto ai negoziati di pace del 1992. Si tratta di attori diversificati, che promuovono un’attenzione particolare per le problematiche dell’Africa indipendente in termini di approccio culturale e di slanci solidaristici.
Perché il 1989 rappresenta una data cruciale per le relazioni tra Italia e Africa e perché la narrazione si conclude con un epilogo?
Il 1989 è certamente un passaggio cruciale per l’Africa e per le relazioni con l’Italia.La caduta del muro di Berlino e i suoi rivolgimenti internazionali provocanoun progressivo ritiro dell’Occidente dal continente africano, dovuto alla fine della Guerra fredda e del ruolo dell’Africa come campo del confronto bipolare.In questo quadro anche l’Italia, presada crisi interne per le vicende di corruzione e la conseguente dissoluzione della “Repubblica dei partiti”: eventi gravi e problematici, come il genocidio in Rwanda o l’esplosione di conflitti regionali, tra cui la Somalia, dove fallisce un intervento esterno a guida statunitense, inducono l’Italia ad allontanarsi dall’interesse per il continente africano, a livello non solo politico ma anche culturale, e ad avvitarsi rapidamente sulle vicende interne. Si apre, così, un decennio contraddittorio, tra spinte all’introversione e tentativi di contrastarle con eventi in cui l’Italia si trova coinvolta. È il caso della liberazione di Nelson Mandela in Sudafrica, nel ’90, e della transizione democratica del paese nel ’94: il leader sudafricano viene ricevuto al Campidoglio, poi al Quirinale e in Vaticano, avviando un rapporto significativo con Giovanni Paolo II. Ma poi anche c’è anche la “pace italiana” in Mozambico: così è stata definita la soluzione della guerra civile in Mozambico, che persisteva dal 1975 e aveva provocato circa un milione di morti, raggiunta nel ’92 con la mediazione informale della Comunità di Sant’Egidio e del governo italiano. Due brecce benefiche in un orizzonte di “afropessimismo”, in grado di trasmettere percezioni più positive del presente e del futuro del continente, non recepite però in tutta la loro portata. Ma c’è anche la visione proposta da Giovanni Paolo II in una prospettiva più positiva del presente e del futuro del continente, con la convocazione a Roma del primo sinodo africano nella storia della Chiesa cattolica, nel 1994.
Il 1989 segna una svolta anche in quella percezione stereotipata ed “etnicizzata” del “Nero” immigrato affermatasi lungo il decennio. In agosto, l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Essan Masslo nelle campagne di Villa Literno per mano di una banda di rapinatori, ha per la prima volta un grande risalto mediatico: emerge dirompente, in Italia, una “questione razziale”, che smonta lo stereotipo bonario dell’“italiano brava gente” e rende l’opinione pubblica italiana improvvisamente consapevole del fenomeno immigratorio, fenomeno irreversibile e dilemma non più eludibile. Con l’omicidio di Masslo la questione immigratoria comincia a politicizzarsi. Qui, allora, l’esigenza di un epilogo, che ponesse in luce la chiusura di una stagione proficua, pur tra ambiguità e contraddizioni, e l’apertura di una fase problematica, tra solidarismo collettivo e visioni lungimiranti, ma anche con brusche prese di coscienza sull’animo razzista degli italiani.Come notato da Gian Paolo Calchi Novati l’Africa, dopo il 1989, retrocede nella periferia della periferia, mentre si affievolisconoprogressivamente gli interessi italiani. E concludeva: «Nel mondo globale all’Italia, troppo preoccupata di “respingere” invece che “integrare”, finiranno per mancare quegli avamposti, fatti di persone, sentimenti e iniziative». L’introversione italiana finisce per deformare la stessa percezione dell’Africa, sempre più condizionata, a livello di opinione pubblica, dal fenomeno immigratorio e disconnessa da quell’eredità di studi e di informazioni emersi nei decenni precedenti e negli stessi anni ‘90: paradossalmente, il contatto con l’Africa diviene ravvicinato e immediato, ma filtrato da una conoscenza sommaria e semplificata, tesa a ridurla ad una categoria monolitica e generalizzata. Siamo, così, nel solco di un nuovo terreno storiografico, che merita di essere analizzato più a fondo per cercare le dinamiche di un rapporto per molti versi irrisolto e all’origine di crisi perduranti nel “disordine” globale degli ultimi decenni. È un epilogo che introduce a un’altra storia, quella dei nostri giorni.
Breve nota biografica/bibliografica
Paolo Borruso è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano. Studioso dell’Africa contemporanea, con particolare attenzione ai rapporti tra Europa, Italia e Africa, ha svolto le sue ricerche tra Roma, Londra e Addis Abeba, occupandosi del colonialismo italiano ed europeo, delle missioni cattoliche, delle sorti dell’impero etiopico lungo il ’900, dei processi d’indipendenza, dell’Africa postcoloniale e dei ruoli postcoloniali dell’Italia. Tra le sue pubblicazioni: L’Africa al confino (2003); Il PCI e l’Africa indipendente (2009); L’Italia in Africa (a cura di, 2015); Testimone di un massacro (2022). Per Laterza è autore di DebreLibanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia (2020), tradotto anche in inglese “DebreLibanos 1937. The mostserious war crime suffered by Ethiopia” (Routledge, 2023).