Articolo di Dario Spagnuolo
Per comprendere a pieno il boom turistico di Napoli è opportuno guardare ad alcuni numeri. Nel 2013 l’aeroporto di Napoli Capodichino chiudeva l’anno con un movimento complessivo di 5.444.422 passeggeri. Dieci anni dopo, nel 2023, i passeggeri sono stati oltre il doppio: 12.394.911! Una performance quasi incredibile se si considera che giunge dopo i minimi storici degli anni COVID (2.779.946 passeggeri nel 2020). Ma non basta, considerando solo gli alloggi gestiti da Airbnb, il loro numero a Napoli, tra il 2015 e il 2020, è cresciuto del 551% sfiorando quota 10.000 alloggi e superando persino Venezia.
Il boom turistico ha beneficiato dell’immagine di Napoli veicolata da film e serie televisive: Un posto al sole, Mare fuori, Mina settembre, I bastardi di Pizzofalcone ma anche The Equalizer … Un’altra parte importante l’hanno giocata i social. Così, moltissimi vengono a Napoli per vedere il murales di Maradona e mangiare “fiocchi di neve” e “pizze a portafoglio”. Molti non hanno idea della storia millenaria della città, della presenza dei greci e dei romani, le cui tracce sono visibili in tutto il centro storico (per chi sa guardare), né vedono le testimonianze degli egizi, degli armeni, degli spagnoli, degli angioini. Non alzano lo sguardo quando traversano Spaccanapoli, e così non vedono Castel Sant’Elmo, dove si concluse nel sangue l’esperienza giacobina. Non sanno che a Napoli ci sono altri tre castelli e che oltre a Palazzo Reale c’è la Reggia di Capodimonte. Nemmeno hanno idea che a Napoli lavorino o abbiano lasciato traccia alcuni degli artisti contemporanei di maggiore rilievo nel panorama mondiale, come Bansky e Jago.
Dal proprio canto, i napoletani fanno poco per promuovere l’immenso patrimonio culturale e artistico di una delle città più originali d’Europa. Il turismo è l’occasione di rimettersi in carreggiata dopo che la pandemia ha distrutto il tessuto economico minuto, portando alla rovina centinaia di famiglie. Con il venir meno anche del reddito di cittadinanza, improvvisarsi ristoratori o commercianti di souvenir è divenuta una necessità.
Nell’affollata città partenopea (Napoli è il capoluogo italiano con la più alta densità abitativa, circa 8.000 ab/kmq) il turismo rappresenta un’improvvisa fonte di ricchezza. I B&B si sono moltiplicati e praticamente non esiste palazzo del centro storico che non ne ospiti uno.
L’investimento turistico e la domanda di fitti brevi e brevissimi ha fatto lievitare sensibilmente il valore degli immobili nel centro storico. Il prezzo a metro quadro, in qualche caso, si è triplicato. Appartamenti il cui valore commerciale era di circa 1.200/1.600 euro/mq passano attualmente di mano a 2.400/3.600 €/mq, arrivando in qualche caso anche intorno ai 4.000 €/mq e oltre. Il motivo è ovvio: l’innalzamento vertiginoso delle rendite per affitto. Piccole quadrature che ospitavano bugigattoli e piccolissimi esercizi commerciali, hanno improvvisamente acquistato valore. Se prima affittarle poteva costare 3 0 400 euro al mese, con il turismo la stessa cifra può essere richiesta per soli tre giorni. Chi poi possedeva una quadratura maggiore ha visto triplicarsi il valore della proprietà, ritrovandosi tra le mani un piccolo patrimonio.
L’amministrazione non sembra in grado di governare efficacemente la turistificazione selvaggia. I tavolini di bar e ristoranti invadono marciapiedi, piazze e persino i vicoli del centro storico. Via Duomo, parzialmente pedonalizzata, è ridotta ad una successione di bar e negozi di souvenir, in mezzo ai quali sfrecciano motorini e minimoto guidati da centauri minorenni privi di casco. Dai locali provengono schiamazzi e musica ad alto volume sino a notte inoltrata.
In questo contesto turbolento è opportuno chiedersi quale sia l’impatto sociale di questo processo. Napoli, infatti, è l’unica grande città europea a non avere vissuto la “gentrification” cioè l’abbandono del centro storico da parte dei ceti più poveri, sostituiti da ceti più abbienti e da una forte spinta alla terziarizzazione. Questo processo di spopolamento dei centri urbani, d’altro canto, ha sempre determinato la nascita di corone di città satellite con funzione residenziale. Questa valvola di sfogo, nel caso di Napoli, non esiste. La città è stretta tra il mare e il Vesuvio e, ciò nonostante, è contornata da una conurbazione fittissima, senza soluzione di continuità. Basti pensare che il comune capoluogo ha meno di un milione di abitanti, mentre l’intera conurbazione ne ospita quasi 4 milioni. Il tutto avviene in uno spazio minimo. Se si considera la densità abitativa di tutte le città italiane, infatti, le prime cinque posizioni sono tutte appannaggio della provincia partenopea: Casavatore, Portici, San Giorgio a Cremano, Melito e Napoli sono i 5 comuni con il maggior numero di abitanti per metro quadrato.
Nel corso dei secoli, più di un visitatore straniero è rimasto colpito da quella che il filosofo Walter Benjamin ha definito “porosità”: la capacità di Napoli di tenere insieme anime diverse. Nel centro storico di Napoli, da sempre, ricchi e poveri convivono. Nei palazzi cinquecenteschi, ma anche in quelli più popolari di Piazza Mercato o del Rione Sanità, è possibile trovare immensi appartamenti abitati da professionisti, ma anche i “bassi”: locali al livello della strada adattati per abitarci. Immobili popolari si appoggiano a palazzi nobiliari, producendo un viavai di personaggi eterogenei che rappresenta un aspetto distintivo della città.
Per comprendere, può essere utile accompagnare gli operatori del progetto “A casa è meglio” che si recano a trovare gli anziani soli, si occupano di far loro la spesa, di comprare le medicine, di pulire e cucinare.
Gli anziani che vivono in centro sono tantissimi. Per andarli a trovare si attraversano strade in cui si notano tanti bassi dove abitano famiglie immigrate, soprattutto di cingalesi, capoverdiani e dominicani. Si nota qualche vecchietta seduta in strada, davanti alla porta di casa, mentre dai balconi salgono e scendono i panieri contenenti la spesa acquistata telefonicamente o urlata dalla finestra. E’ una sorta di deliverooante litteram che a Napoli esiste da sempre.
Si entra poi in palazzi scalcinati, dai gradini irregolari e sporchi, e si scoprono porte dove non dovrebbero esserci, casomai tra un gradino e l’altro della stessa scala. Talvolta sono ingressi dalle dimensioni un po’ anomale, attraverso cui si accede ad appartamenti inverosimili. Alcuni sono stati ricavati soppalcando interi piani degli antichi palazzi nobiliari e aprendo finestre lì dove non sono in vista, verso i cortili interni.
Quelle degli anziani sono case piccolissime, buie e con le mura ricoperte di una carta da parati sottile e ingiallita. Il bagno è microscopico, tirato su artigianalmente nell’unico punto possibile. Le cucine spesso funzionano con le bombole a gas. Raramente si nota qualche termosifone. In inverno, per riscaldarsi, ci si arrangia con le stufette elettriche. Anche i fili elettrici, spesso a vista, sono quelli antichi: sottili e intrecciati.
Entrare in una di queste case significa fare un salto nel passato di almeno 60 anni. Molti pagano un affitto irrisorio senza avere mai sottoscritto alcun contratto. Sono gente del quartiere e il vicinato tributa loro una sorta di minima riconoscenza. E’ anche vero che molti anziani sono sfruttati dai vicini per i pochi euro di pensione che ricevono. Così, si trovano a vivere tra chi li aiuta e chi li deruba.
Ma gli anziani sono sempre di più. Nel solo Comune di Napoli gli ultrasessantacinquenni sono il 21%. Di questi quasi la metà ha superato già i 75 anni. Sono poverissimi, hanno quasi sempre speso la vita lavorando in nero, cominciando in tenerissima età, ed ora sopravvivono con la pensione sociale: 500 euro al mese. Troppo poco per fare fronte al fitto e alle utenze.
Beneficiano di un alloggio in virtù di un antichissimo patto che lega tutti gli abitanti del centro storico e che segue una divisione convenzionale da cui scaturiscono quartieri che, amministrativamente, non esisterebbero. Forcella, Sanità, Cristallini, Miracoli, Gradini Cinesi, Vico Maiorani, Anticaglia: i nomi delle strade raccontano una geografia umana decifrabile solo a chi conosce la storia dei luoghi e delle persone.
Con il boom turistico e l’aumento esponenziale delle rendite immobiliari, gli anziani sono tra i primi ad essere cacciati via. La solidarietà cede il passo alle ragioni del profitto.
Così nel centro storico di Napoli si assiste ad una gentrification accelerata. Assieme agli anziani, soprattutto quelli soli, sono indotti a lasciare casa anche le famiglie in difficoltà, quelle monoreddito o che vivono di lavori precari, che hanno un figlio di troppo o hanno in casa una persona con disabilità. Lo stesso destino è riservato alle famiglie dei migranti. Con le buone o con le cattive, perché quando i soldi sono tanti la camorra pretende la sua parte, queste persone devono andare via. Ma dove?
Andare in periferia, ammesso che si trovi un appartamento agli stessi costi, significa perdere comunque la rete solidaristica che, nel centro storico, consente di sopravvivere: il vicino che ti fa la spesa, quello che ti porta da mangiare, il commerciante che ti regala gli scarti della carne o la pizza una volta alla settimana.
Era, questo, un modo di sopravvivere che traeva origine dalla consapevolezza che tutti erano esposti ai capricci del destino. La Napoli “porosa”, insomma, era anche la manifestazione di un patto, di una mutualità necessaria a fronteggiare i momenti difficili. Il boom del turismo ha frantumato questo patto.
Molti sono già stati cacciati, finendo in periferia o, qualcuno, nelle RSA. Tuttavia, anche i quartieri periferici, soprattutto la zona orientale, sono già abbastanza congestionati. Inoltre, proprio a causa dell’espulsione della popolazione dal centro storico, iniziano a salire i prezzi degli appartamenti anche nel resto della città.
Ci vorrebbero soluzioni alternative, come il cohousing o la creazione di condomini protetti. Ma queste richiedono l’intervento di enti capaci di dare impulso e poi di gestire i nuovi modelli abitativi. Intanto, il turismo sta rapidamente portando alla scomparsa della Napoli “porosa”, rendendo sempre più difficile la vita della fasce socialmente più deboli. Con la loro scomparsa, però, rischia di scomparire anche quel tratto umano che rende la città unica, quella in cui tutti si sentono a casa propria. La città in cui, ad un anziano Marcello Mastroianni, una vecchietta dice “Marcellì, ce simm’ fatt’ vicchiariell’, eh? ‘o vvulite nu cafè?”