Articolo di Maria Scerrato

I ruderi del castello dei Conti D’Aquino dalla cima del Monte Asprano sfidano le nuvole.Si ergono verso il cielo, da una posizione strategica che consente il controllo della bassa valle del Liri e attraverso le Gole del Melfal’accesso alla Val Comino e quindi all’Abruzzo.
Il luogo è di una sublime selvaggia bellezza e si scorge un panorama incredibile, se solo si alza lo sguardo. Quando gli occhi guardano in basso, incontrano invece i due milioni di metri quadrati del complesso produttivo Stellantis di Piedimonte San Germano (FR). Un tempo cuore pulsante dell’industria automobilistica italiana oggi giace vittima di una crisi che rischia di segnare il destino di un intero territorio.

Il considerevole volume di fabbricati è stato costruito più di cinquant’anni fa, ai tempi della Cassa del Mezzogiorno, per ospitare i 13.500 addetti alla produzione di quelle autodegli anni Settanta e Ottantache hanno avuto un successo incredibile. Si sfornavala Fiat 126, la Fiat 131, la Fiat Ritmo, veicoli di grande popolarità soprattutto per l’ampia fetta medio bassa del mercato automobilistico.
Allora la grande fabbrica si chiamava FIAT: la produzione era a pieno regime e forniva lavoro oltre che agli operai interni anche a tutte le altre migliaia del cosiddetto “indotto”. Lo stabilimento degli Agnelli fu una spinta propulsiva incredibileper lo sviluppo complessivo del territorio, ovverodiquel triangolo di terre puntellate da piccoli paesi,compreso tra i fiumi Liri e Volturno, a cui per un certo affetto identitario ci si riferisce ancora comeAlta Terra di Lavoro, la parte più settentrionale delle province dell’ex Regno delle Due Sicilie.

Il progresso socioeconomico non è stato un processo privo di intoppi. In cinquant’anni, lo stabilimento ha visto numerose crisi: da quelle legate alle lotte operaie, all’infiltrazione di frange terroristiche all’interno della fabbrica, ai lunghi periodi di cassa integrazione per gli operai, ai licenziamenti in blocco. Intanto però si producevano altri modelli che incontravano il favore mercato: la Tipo, la Stilo, la Bravo, la Brava e perfino vetture di fascia più alta come la Tempra, Marea e la Croma e più iconiche come la Lancia Delta e la Giulietta Alfa Romeo.

Con l’arrivo dei nuovi competitors dall’Oriente la crisi del settore si fecepiù pungente. I primi a risentirne furono gli operai dell’indotto. La General Motors impose il contenimento dei costi dei fornitori. Fino al 75-80% dei componenti e sistemi di un veicolo Fiat veniva prodotto all’estero, per poi essere assemblato a Piedimonte.Le piccole imprese dell’indotto, le cosiddette “fabbrichette”, furono le prime a soccombere, trascinando con sé migliaia di lavoratori, vittime collaterali di una lunga agonia, fatta per lo più di ammortizzatori sociali e di impossibilità di trovare un nuovo impiego Di fronte a un futuro incerto e a scarse prospettive di riqualificazione, molti, soprattutto giovani, che dalla Valle dei Santi nel Cassinate, furono costretti a emigrare, replicando un destino già vissuto dai loro nonni negli anni Cinquanta.

Seguirono alcune operazioni di ristrutturazione e di innovazione tecnologica che portarono al rilancio industriale a metà degli anni 2000. Nell’era Marchionne, si cercò di risanare i tanti debiti dell’azienda attraverso la fusione con Chrysler. Lo stabilimento di Piedimonte San Germano divennel’FCA Cassino Plant, un impianto ad alta automazione. Furonogli anni della produzione delle Alfa Romeo chiamate a rilanciare il marchio nel segmento medio, la berlina Giulia e il SUV Stelvio.
I processi produttivi vennero digitalizzati, si cercò anche di ridurre l’impatto della produzione sull’ambiente. I reparti di stampaggio delle parti strutturali lavoravano persino per altri marchi, come ad esempio Maserati, il cui SUV Grecale usava il pianale della Stelvio.
Nel 2021la rovinosa fusione della FCA con PeugeotGroupe PSA in Stellantis, di fatto una acquisizionecontrollata francese, ha inaugurato un rapido declino. Mentre i manager annunciavano la produzione di veicoli basati sulla piattaforma BEV flessibile STLA Large, ovvero vetture elettriche ad alta tecnologia, il crollo dell’impianto di Piedimonte è diventato sempre più evidente. I dati de Il Sole 24ore sono eclatanti: nel 2024 la produzione è stata ridotta del 90% ovvero sono state prodotte solo 15.900 automobili, mentre i dipendenti sono scesi a 2.700, il 40 % di quelli occupati solo qualche anno prima, che inoltre hanno lavorato solo per un centinaio di giornate.
Il futuro sembra privo di prospettiva. Lo stato dell’arte dell’impianto ci parla di una situazione di crisi irreversibile. Interi reparti sono stati completamente smantellati e molti sono stati i licenziamenti. Chi ancora lavora lo fa in condizioni estreme anche di sicurezza, con un turno unico e carichi di lavoro insostenibili a causa dell’aumento della produzione da 183 a 200 vetture al giorno. Per di più i contratti di solidarietà,messi in atto per scongiurare i licenziamenti,hanno ridotto i salari e aumentato la vulnerabilità sociale. Le iniziative che sono state intraprese sono quelle antiche della lotta operaia: si è tornati alla mobilitazione generale, all’arma dello sciopero come quello dello scorso 18 ottobre, alla denuncia. Ma i risultati sono stati deludenti.

Il declino dello stabilimento Stellantis di Piedimonte San Germano rappresenta una ferita profonda per un territorio che ha costruito la propria identità intorno all’industria. Ma la crisi può anche essere un’opportunità per ripensare il futuro. La deindustrializzazione richiede una sinergia tra le istituzioni, le imprese e la comunità locale e soprattutto un cambio di passo. Politiche più lungimiranti, investimenti in infrastrutture, promozione di nuove filiere produttive, sostegno all’innovazione e alla formazione sono gli ingredienti indispensabili per rilanciare un territorio che ha ancora molto da offrire.
L’Alta Terra di Lavoro è così chiamata a reinventarsi, a valorizzare le proprie risorse, le proprie tradizioni e il proprio patrimonio culturale per costruire un futuro sostenibile e ricco di opportunità. La storia ci insegna che sono solo i territori resilienti quelli che sanno adattarsi ai cambiamenti e cogliere le sfide.

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