Riceviamo e pubblichiamo l’articolo di Gianluca Liardo
Quando, da un’ordinata cittadina della pianura padana, ripensi al Sud vieni inevitabilmente rapito dalle suggestioni e nel ricordo il meridione diventa appetito, piacere, umanità, sensualità, calore. Sì, calore; un calore così deciso quello del sud Italia da risultare oramai un banale luogo comune, ma quella che vorremmo mettere in luce in queste righe è una visione differente, provocatoria, una visione d’insieme che, con le ragioni e le regioni del meridione,riesca ad abbracciare tutti i sud di questo mondo. Vorremmo considerare il sud come “carne”: un termine che in origine definiva l’uomo nella sua interezza, ma anche la parte morbida dell’uomo, quella più fragile, vulnerabile, attaccabile con più facilità dal male che, si sa, preferisce aggredire i tessuti molli.
Adottando questa lente per guardare allo scenario della società attuale si potrà intravedere la fragilità umana sotto diverse prospettive, si potranno intravedere le diverse categorie di un sud maltrattato da decenni, oramai quasi del tutto soggiogato anche culturalmente e psicologicamente alle direttive di un nord più ricco e lungimirante, sempre pronto ad usarlo o ignorarlo all’occorrenza. In quest’ottica Sud è anche la nostra collega sfruttata e messa ai margini, condannata al burn-out o vittima di mobbing; Sud è il compagno di classe bullizzato da ragazzini più sgamati che prima di lui hanno compreso come si sta al mondo; Sud è la donna aggredita per strada o umiliata tra le mura di casa da un maschio oramai in piena crisi di identità e valori, indegno di essere chiamato uomo; Sud è il ragazzo disoccupato costretto a partire intravedendo dal finestrino le guance in carne della mamma che gli ha appena preparato un panino per il viaggio e attende che il pullman riparta; Sud è la madre lontana che, per telefono, si sforzerà di trovare la maniera più indolore per annunciargli un lutto o una malattia e poi rassegnarsi ad affrontarli senza il conforto concreto dei figli che ha messo al mondo; Sud è il paziente spaesato tra le corsie d’ospedale di una terra oramai in costante emergenza sanitaria; Sud è il migrante costretto ad arrangiarsi sotto gli occhi del figlio che si domanda perché dalle nostre parti la laurea in medicina o ingegneria conseguita dal padre in un paese del sud del mondo conti zero; Sud è la ragazzina disabile che cresce accontentandosi delle briciole della vita che le sue coetanee mettono in vetrina sui social; parte del Sud è chi si riconosca in una di queste (e tante altre) categorie, anche fosse nato in provincia di Cuneo.
Se, al netto della retorica, la nostra società riuscisse a riconoscere questi figli degli uomini come la propria parte più fragile, da difendere a tutti i costi; se riuscisse a guardarli dritto negli occhi fino a riconoscersi, a osservare la loro carne con umanità, con l’amore della mamma che li vede arrancare e rimanere indietro come pacchi per il mondo, forse questo mondo insostenibile ci apparirebbe migliore. Non smetteremo di provarci, torneremo a credere nella retorica, se necessario, a incontrare la gente. Proveremo a guardarla negli occhi durante le occasioni di ritrovo che ci appaiono più interessanti, illuminanti, funzionali al nostro gioco di squadra, perché fare squadra è indispensabile per raggiungere un risultato, per riuscire perlomeno a combinare qualcosa di buono per noi stessi e per gli altri, per migliorare le cose.