Articolo di Antonio Scialpi
Periodicamente il concetto di egemonia culturale riappare nei dibattiti culturali e politici, specie da quando governa la destra in Italia, mutuato da Antonio Gramsci.
Ma solo la parola, per altro infangata.
Probabilmente senza leggere gli scritti di una delle menti più originali del pensiero politico del primo Novecento.
Messa a tacere dal Fascismo nel durissimo carcere di Turi.
Fino alla sua morte.
Piuttosto, l’egemonia culturale gramsciana viene oggi utilizzata per coprire le nomine di persone negli apparati della cultura. Nelle TV pubbliche.
Una nuova Corte, di presunti patrioti. Improvvisati, purché fedeli.
Purtroppo, in passato anche il centrosinistra sovente è caduto in questa trappola.
Il concetto gramsciano, invece, è nobile: nasce da uno sguardo sulla Storia italiana del Risorgimento e delle sue contraddizioni sociali e politiche.
Per Gramsci quella fase storica si concluse con una subalternità delle forze democratiche e repubblicane al blocco sociale della borghesia del Nord e dell’aristocrazia del Sud.
Una ferita mortale del primo stato liberale italiano.
Garibaldi ne fu l’incarnazione. Lui stesso fu ferito.
Il Sud pagò le conseguenze socioeconomiche e a nulla valsero gli stessi ripensamenti di Garibaldi e le rivolte sociali, come quelle dei Briganti.
E le successive.
La frattura tra Stato liberale e masse popolari fu, poi, la causa lunga della sua crisi sfociata nella sua crisi e nella nascita dello Stato totalitario.
Gramsci lavorò a lungo sul concetto di egemonia fin dagli scritti giovanili e dell’incontro con il giovanissimo Pietro Gobetti, l’alfiere della “Rivoluzione liberale”, stroncato con la sua aggressione mortale.
Un secolo fa.
Nei “Quaderni dal Carcere” ritornò spesso come nel saggio sulla “Questione meridionale”.
E gli uomini di cultura non potevano essere uomini da collocare nei posti di comando per fare propaganda, subalterni al Capo di turno.Come nello Stato totalitario.
Per Gramsci, gli intellettuali, termine purtroppo denobilitato oggi, erano quelli che dovevano offrire gli strumenti di emancipazione e liberazione delle lavoratrici e contadine dalla condizione subalterna.
Non servi e cortigiani. Per altro inadeguati.
D’altronde, finora, abbiamo vissuto il primo clamoroso fallimento di questo sincretismo ideologico: ben due uomini del Ministero della cultura si sono dovuti dimettere per inadeguatezza o interessi, Sangiuliano e Sgarbi, sostituiti dal nuovo Ministro Giuli, tra quelli che si sono affrettati ad ingaggiare e stravolgere Gramsci.
E al Ministero delĺ’Istruzione siede Valditara che teorizza il merito. Il contrario della visione dell’istruzione di Gramsci.
Nel nome della triade risuscitata.
Dio, ma il loro Dio è il danaro.
Famiglia, per gli altri e non per sé.
Patria, con beffa ai patrioti del Risorgimento e della Resistenza. E del termine “Patria” della Costituzione.
Ma l’essenza delle antiche sudditanze emerge con due fatti preoccupanti.
Il primo è l’approvazione della Legge sull’autonomia differenziata che proiettata il Sud fuori dai paradigmi della dignità economica e sociale, lo spinge indietro.
Ma è essenzialmente incostituzionale, per aver aggirato le funzioni della vera sovranità Parlamentare. Grazie alle responsabilità di una nuova classe dirigente che si inchina in modo subalterno al nuovo capitalismo dell’Ontologia dell’infosfera”, per dirla con Giuli, sublimata dalla Presidente del Consiglio che striscia i potenti capi.
Appunto, Musk, l’uomo più ricco di questo mondo dell’infosfera che si fa dominatore politico, dal 20 gennaio, vero decisore dei destini del mondo e delle sue crescenti ed esplodenti disuguaglianze.
Altro che ontologia: un’ipoteca sulla Democrazia liberale e sul suo futuro molto critico per la subalternità totale alle nuove forme di capitalismo, che si fa politica.
Gramsci, oggi, andrebbe all’incontrario di costoro. Perché il suo concetto di egemonia culturale è di liberazione sociale dalle forme di dominio e di consenso delle classi più povere. Gramsci, presuppone una critica radicale alla cultura dominante che oggi è essenzialmente legata alle tecnologie e alla loro pervasività delle coscienze: l’esatto contrario di quello che viviamo, in cui siamo ridotti a macchine, non quelle del primo Novecento di Gramsci ma quelle che ci rendono un popolo di fallowers, confuso ed inebriante subalternità.
La condizione umana per Gramsci si eleva solo se è libera coscienza.
È un problema di diritto e di forza.
Di presa di coscienza critica del proprio ruolo nella storia e non strumento subalterno, connesso alla propria sola individualità sbriciolata. “Questa forma di cultura – intuiva il giovane Gramsci nel 1916 – in cui l’uomo è visto se non sotto forma di recipiente da empire di dati empirici, di fatti bruti, che lui dovrà incasellare nel proprio cervello come nelle colonne di un dizionario….è veramente dannosa” (Il Grido del Popolo, 26 gennaio 1916, pag. 26).
Esattamente come la cosiddetta egemonia culturale della destra di cui parlano specie i ministri della Cultura del nostro tempo e i loro Yes man.