di Marco Cardetta
Sulle origini del termine “italia”, etimologicamente e storicamente, vi sono parecchie incertezze. Le ipotesi in campo si basano prevalentemente su testimonianze di storici antichi: la prima, più ricorrente nelle fonti, fa derivare il nome dal “toro” che le genti italiche meridionali, precedenti la colonizzazione greca, veneravano: il simulacro di un Toro/Vitello (vitulus, in latino, vitlo/vitlu/uitlu, in osco-umbro), divinizzato da questi Vituli appunto, da cui deriverebbe Ouitoulia/Italia e Italoi/italici, ovvero “terra dei Vituli/terra dei tori”, “abitatori della terra dei vitelli”.
Vi sono variabili di teoria con il medesimo esito etimologico e ricollegate allo stesso tema. Così Varrone cita Timeo e Pisone dicendo “Italia” da Vitulis per l’abbondanza e bellezza del vitello quivi allevato: tale ipotesi troverebbe riscontro a posteriori nei tanti toponimi di area calabra – e nel resto del Sud – derivanti da radici riconducibili a questa sfera semantica: Taurania, Bova, Bovalino, Metauros, Turi, Gioia Tauro, tra le altre.
Vi è da notare che le coste più meridionali della Calabria, nel 4°-3° millennio a.C., assai più verdeggianti di oggi, ospitarono certamente i primi bovini podolici importati dal Ponto Eusino, che con la loro imponenza e lunghe corna dovevano impressionare i nuovi venuti. Così – considerazione personale dello scrivente – probabilmente i navigatori greci potevano chiamare italici sia i predecessori nativi, sia i loro stessi connazionali già integratisi,quali “allevatori di vitelli” per differenziarli da se stessi – rimasti ne la patria Ελλάς/Ellás/ Grecia dove il territorio montagnoso asperrimo (non a caso tra le ipotesi etimologiche di Ellás vi sarebbe Sellas, “terra lunare” in quanto “spoglia di vegetazione”, oltre ale teorie che la collegano a Selene “dove si venera la luna” e al’eroe eponimo Elleno) fu sempre assai più vocato – ieri quanto oggi – al’allevamento di pecore e capre, che di bovini. Le immense distese di pianure e colline di tumidi erbaggi (e la generosità naturalistica dele sponde italiche contrapposta a la patria di origine resta ne la denominazione “Magna Grecia”), in cui mandrie di grandi vitelli candidi pascolavano pacifici, selvaggi, dovevano avere un significato particolare – di differenza e nuovo mondo da caratterizzare – per i greci al loro primo arrivo.
Vi è inoltre da sottolineare che questa presenza forte del’archetipo “vitello” resta connessa al Meridione italico per secoli, manifestandosi anche nella simbologia dell’opposizione ultima (Guerra sociale I sec. a.C.) al’avanzata culturale romana, nelle raffigurazioni di tori in atto di incornare la lupa su alcune monete. Il toro insomma assurse, in una delle sue ultime ipostasi, a simbolo di un Sud resistente contro l’ingordigia romana dell’epoca (sic!). (Chissà che non possa essere ispirazione per nuove simboliche di lotta politica verso il romacentrismo?)
Oltre a ciò, abbiamo anche monete – prima testimonianza di “Italia” – in cui questo nome, con la sua personificazione visiva in qualità di fanciulla-dea di profilo, viene seguito dal’equivalente in osco “Viteliu”.
Insomma, l’equivalenza di Italia/Vitelia fu sempre assai avvertito nell’antichità, fin quasi agli albori dell’epoca cristica. 

Altra ipotesi, oggi assai poco riconosciuta, ma suffragata dagli storici greci (Tucidide, Aristotele, Antioco di Siracusa, Strabone, Dionigi di Alicarnasso), farebbe risalire il nome ad un leggendario Italo, re degli Enotri (ulteriore antico nome delle popolazioni italiche), quale colui che, sedici generazioni prima della guerra di Troia, avrebbe ridotto in suo potere l’area compresa tra il golfo napetino e quello scilletico, convertito quelle popolazioni da nomadi a stanzialie attribuito loro il suo nome: italici appunto.
Ultima ipotesi, ancor più minoritaria: Italia potrebbe derivare dal greco Aithàleia (Αιθαλεια), da la radice Aith– “fuoco” (che resterebbe anche nel nome greco Aitna, da cui Etna) e starebbe per “ardente, fumosa”. Nome, si può ipotizzare, dovuto a manifestazioni vulcaniche intraviste dai coloni all’arrivo (Etna, Eolie appunto), oppure – sostiene Strabone – in riferimento ala leggenda delle “navi bruciate” – in fumo, fumiganti – incendiate dalle mogli dei migranti-coloni, che impedirono agli uomini di riprendere il mare, perché innamorate di questa terra meravigliosa.
O ancora – la preferita dal sottoscritto – variatio sempre in riferimento ala radice Aith-, sarebbe da intendersi quale terra infuocata, nel senso di terra occidentale (non a caso altro nome usato fu Esperia, appunto terra/Europa occidentale, quanto Ανατολή da cui Anatolia, è letteralmente ancora oggi in neogreco il termine per indicare l’est): per i naviganti dal’oriente greco, il sole sarebbe tramontato ogni giorno davanti a la prua, infuocato: insomma, terra dal tramonto infuocata. Teoria etimologica assai vaga, ma tremendamente poetica.
A prescindere da queste diverse ipotesi, una cosa è certa però, certissima e granitica: i greci, achei, ioni, elleni– nuovi colonizzatori, innovatori, apportatori di tecnologia e saperi, nonché – brutalmente parlando – inventori di parecchio di ciò che l’occidente ha vissuto negli ultimi tremila anni più o meno in termini di storia delle idee – col termine “Italia” designarono inizialmente una tribù che abitava l’estrema punta della Penisola Italica, a sud dell’attuale Catanzaro, nei pressi dell’odierna Cirò, e intesero considerare “Italia”, per lungo tempo – almeno fino al V sec. a.C. – l’area approssimativamente oggi corrispondente ala Calabria.
Per secoli, chiamarono sempre e solo Italia e italici, la Calabria e i calabrici. (Che tra l’altro al’epoca non si sarebbero potuti chiamare calabrici, perché la Calabria era il Salento, semmai etnicamente “bruzi”. Bruzi che tra l’altro non son certo nati sotto i cavoli lì e rimasti sempre lì, ma venivano comunque da un’altrove, assai orientale. Questa però è un’altra storia, che complicherebbe parecchio il discorso.) Di certo, comunque, l’area denominata “Italia” fu quella.
Solamente in un secondo tempo, i greci allargarono l’uso del termine “Italia” ad una regione sempre più ampia, prima al Sud Italia appunto e, successivamente, finalmente, con la conquista romana, assai più tardi, il termine si applicò al’intera penisola, fino alle Alpi.
Così, giacché uno dei miti più forti di questi tempi deboli (deboli perché di pensiero assai debole, e che credono – ahinoi! – di non avere miti. Ne riparleremo.) è il mito del’antico, del’originario (denominazioni di origini più o meno controllate – si vuol financo controllare cosa? La natura, le ricette, la mutevolezza del reale?), ovvero che nel’antico e nel’origine si possa trovare l’inizio fuor del tempo (e magari fuor delo spazio), fuor de la trasformazione infinita e indefinita de la vita – che assurga a solidità assoluta, pietra angolare di autenticità e verità (sic!) (quale verità? adaequatio rei et intellectus o coerenza del sistema?).
Altrimenti detto: considerato lo sbagliatissimo infantile rapporto che i moderni – degli ultimi due secoli almeno – hanno con l’antico, il passato, la tradizione e la storia (ne riparleremo in altra occasione con il buon Nietzsche), tale per cui è moda (e modalità) ricercare nele origini un qualcosa di perduto (per definizione “perduto”, e che assurge amito appunto), una cogenza svanita e/o annacquata – quasi che il procedere (pseudo-)lineare degli eventi umani e naturali comporti necessariamente mistificazione, inquinamento, depauperazione, decadimento e decadenza, declino, scadimento, rovinio.
(Mito questo che fa il paio con quello speculare capitalistico-giudaico-cristiano che vede nel futuro sempre l’optimum sanzionatorio e obliterante cui propendere, terra promessa/eden quale requie resolutiva. Ne riparleremo).
Alla luce di queste nozioni e adeguandoci al paralogismo (originario=vero/solido/cogente/affidabile), dovremmo forse rivedere senso e valore di affermazioni usate, abusate, da taluni partiti, soprattutto di area destrorsa, ex-secessionisti (oggi nazionalisti al’occorrenza e opportunismo temporaneo), xenofobi e razzisti a tratti, recuperando, ne l’uso originario del termine “Italia”, la sua più vera autentica identità!
Così, quando risuona per l’aere e ovunque, per i mezzi di comunicazione, la parola d’ordine – “Prima gli italiani!” – il sottoscritto, in virtù delle precedenti considerazioni, con assai naturalezza, ormai da tempo, dentro di sé pensa – e così invita a fare il lettore – “Sì! Prima i calabresi! Veri italici!”
Lì le origini, lì la vera identità italica, di ‘nduja e neonate fritte!
Prima la Calabria, prima i calabresi, vera originale Italia!

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