di Ciro Esposito
Riassunto
Il saggio ripercorre l’impegno politico meridionalista di Francesco De Martino: l’iniziale militanza nel Partito d’Azione (1943-1947), l’adesione al Partito Socialista (1947), la costruzione del Fronte Popolare del Mezzogiorno (1948) e del Movimento di Rinascita del Mezzogiorno insieme ai comunisti (1950), la pubblicazione della rivista “Cronache Meridionali” (1954), fino all’allontanamento definitivo dal frontismo dopo i “fatti d’Ungheria” (1956). Francesco De Martino sviluppa nel secondo dopoguerra una peculiare posizione unitaria a sinistra, che non abbandonerà mai, pur nella differenza dei contesti e delle fasi politiche: la ricerca dell’unità tra i partiti della sinistra favorisce l’ancoraggio dei socialisti alla classe lavoratrice e l’evoluzione democratica dei comunisti. Questa linea trova le sue radici nelle peculiari condizioni della lotta politica nel Mezzogiorno del secondo dopoguerra, dove la sinistra è impegnata a difendere in maniera unitaria le condizioni stesse dello sviluppo democratico dal blocco agrario e reazionario.
Parole chiave: De Martino, dopoguerra, socialismo, meridionalismo, frontismo, unità della sinistra.
Nato da un impiegato postale e da una casalinga di Somma Vesuviana nel 1907, al momento della Liberazione, Francesco De Martino era professore di Storia del Diritto Romano all’Università di Bari e uno dei principali dirigenti del Partito d’Azione, che, insieme a Emilio Lussu, intendeva collocare saldamente a sinistra.
De Martino – con Lussu – riteneva che un partito centrista rivolto a orientare i ceti medi in senso progressista non potesse candidarsi a guidare il rinnovamento democratico del Paese. Il Partito d’Azione avrebbe dovuto assumere una fisionomia di classe – la classe lavoratrice, estesa e articolata – e collaborare con socialisti e comunisti alla definizione di uno schieramento riformatore senza subirne l’egemonia, ma favorendone l’apertura ai ceti medi e la progressiva adesione al metodo democratico. E’ una linea cui De Martino resterà sempre fedele e che negli anni dell’immediato dopoguerra si alimenta della collaborazione tra i partiti antifascisti nella ricostruzione del Paese.
La collaborazione con gli altri partiti di sinistra rimaneva leale ma polemica. Il partito socialista, che era stato politicamente assente come organizzazione negli anni della lotta clandestina al fascismo rappresentava ancora un’incognita.
Verso il partito comunista la critica era serrata. Per De Martino questione istituzionale e questione meridionale erano intrecciate; se la scelta dell’unità nazionale rappresentata dai CLN era “l’unica possibile e giusta” perché consentiva la convergenza di tutte le forze democratiche sul comune obiettivo della guerra, non così era per il “compromesso morale”, con il quale il partito comunista cedeva all’accordo con la monarchia e accettava di partecipare al secondo governo Bonomi (dicembre 1944), cui azionisti e socialisti non avevano aderito. La politica di rottura democratica del PdA nel Sud, scrive De Martino, “fu praticamente neutralizzata dalla diversa visione del partito comunista, il quale s’intende, contro la sua volontà, contribuiva in Italia meridionale per lo meno al rafforzamento della destra”. (De Martino, 1983: 66). Non si trattava della destra liberale, ma di quella “autoritaria, legittimistica, quietistica” (Ibidem). Il pessimismo di De Martino sembra prossimo allo scoramento: “L’Italia meridionale […] è in buona parte perduta per la democrazia” (Ibidem).
I risultati delle elezioni per l’Assemblea Costituente e per il referendum istituzionale confermarono l’analisi di De Martino: la repubblica riuscì a prevalere in due sole province meridionali (Latina e Trapani) mentre in alcuni casi la prevalenza monarchica risultò schiacciante (a Napoli la monarchia ottenne il 78%). Alle elezioni per la Costituente i partiti di sinistra, dai comunisti ai repubblicani, rimasero complessivamente al di sotto del 25%, mentre dietro la Democrazia Cristiana, primo partito in tutte le province meridionali, si collocarono il più delle volte i liberali dell’Unione Democratica Nazionale a loro volta spesso seguiti dalle liste dell’”Uomo Qualunque”. Il vecchio blocco reazionario, riunito intorno ad agrari e baroni aveva rialzato la testa.
A risultati non ancora validati dalla Corte di Cassazione, una folla monarchica assaltò la sede del PCI di Napoli, allora in Via Medina. Rimasero sul terreno dieci morti (tutti di parte monarchica) e un centinaio di feriti e solo per l’intervento della polizia ausiliaria inviata dal Ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, non ci furono vittime tra gli assediati.
Secondo Maurizio Valenzi, allora dirigente della federazione napoletana comunista:
Tra il ’43 e il ’46 nelle regioni meridionali si era andata sempre più ingrossando quella maggioranza silenziosa che si appoggiava ai vecchi quadri fascisti della polizia, della Magistratura e dell’Esercito, che godevano della protezione dell’AMGOT (Valenzi, 1991: 126).
In Sicilia, l’egemonia del vecchio blocco conservatore si avvalse non solo della minaccia indipendentistica, ma anche della mano armata della mafia; la strage di Portella delle Ginestre non fu un episodio isolato, perché preceduta e seguita da uno stillicidio di omicidi che decapitarono l’opposizione e il sindacalismo di classe nell’isola.
In Sicilia, tra il 1944 e il 1950 i socialisti furono i più colpiti dalla violenza mafiosa, sia per scoraggiarli nella loro azione di contrasto al blocco agrario-mafioso, sia per spaccare il Fronte Popolare e allontanarli con l’intimidazione dai comunisti (Cfr. Montalbano, 2012).
Il Pd’A all’Assemblea Costituente elesse solo sette deputati (De Martino non fu tra loro), il risultato deludente segnò di fatto la fine del partito. De Martino aderì senza indugio al PSIUP, collegandosi alla sinistra interna di Lelio Basso, che già allora perseguiva una politica unitaria nei confronti del PCI senza che questa comportasse una subalternità dei socialisti ai comunisti. Una posizione spazzata via dall’incipiente guerra fredda, che comportò l’esclusione della sinistra dal terzo Governo De Gasperi nel maggio 1947, il mese che era cominciato con la strage di Portella delle Ginestre.
L’unità della sinistra per De Martino era necessariaper la difesa della democrazia nel Mezzogiorno. Come scrive Gaetano Arfé:
La verità è che nel giro di pochi anni, dal 1944 al 1948, i rapporti tra socialisti e comunisti, e più in generale tra le rappresentanze della sinistra socialista e democratica, nel Sud si erano fortemente consolidati non per decisioni di vertici, ma nella realtà della lotta quotidiana; non soltanto sul terreno di classe, ma su quello più vasto e articolato della difesa dei diritti civili, dello sviluppo della democrazia, di una moderna coscienza civile, da cittadini e non da sudditi. (Arfè, 1991: 13).
La ricomposizione unitaria dell’Italia e la Ricostruzione avevano ancora una volta messo il Sud ai margini dello sviluppo industriale ed economico, favorendo l’emersione dei perenni vizi trasformistici e la gestione delle proteste contadine attraverso la repressione. Le prove elettorali – quella referendaria e le elezioni per l’Assemblea Costituente – avevano inoltre messo davanti agli occhi della sinistra la prospettiva dell’emarginazione e dell’isolamento.
A questo quadro obiettivo, che smentiva tutte le illusioni coltivate in seguito alla Quattro Giornate e alla stessa Liberazione, la risposta della sinistra, di socialisti e comunisti, non poteva che essere unitaria.
I primi risultati favorevoli giunsero con le liste dei “Blocchi del Popolo” alle elezioni amministrative del 1947, nelle quali confluirono socialisti, comunisti ed esponenti dell’intellettualità laica e democratica. Lo stesso esito elettorale del 1948 non risultò un tracollo per il Fronte Popolare grazie alla buona tenuta del Sud, dove i “socialcomunisti” riuscirono a guadagnare voti rispetto all’Assemblea Costituente.
Il Fronte Popolare del Mezzogiorno tenne il suo Congresso a Pozzuoli, in un capannone dell’Ansaldo il 19 dicembre 1947. Il Congresso, che accolse delegazioni da tutte le province meridionali, mostrava come in breve tempo il Fronte fosse diventato fattore di iniziativa, coinvolgimento, organizzazione di ampi settori popolari che erano, erano sempre stati, ai margini della vita sociale e politica. Grazie al Fronte, il PSI del Mezzogiorno non risentì in termini politici e organizzativi della scissione di Palazzo Barberini e la sinistra nel suo insieme spezzava l’accerchiamento degli agrari e della destra.
La linea frontista, che segnò la stagione politica unitaria della sinistra fino al 1956, sarà rivendicata da De Martino anche quando diventerà, insieme a Pietro Nenni, il principale esponente dell’autonomismo socialista:
A parer mio, dopo il 1948, non vi era altra possibilità per il PSI che battersi insieme ai comunisti ed irrobustirsi nelle lotte di massa. Solo in questo modo esso poteva sperare di ristabilire un rapporto più equilibrato con il PCI dopo le conseguenze disastrose della scissione e l’insuccesso elettorale del 18 aprile 1948. (De Martino, 1977: 60).
Per Francesco De Martino, come del resto per Rodolfo Morandi, impegno meridionalista e rinnovamento del partito socialista erano tra loro inscindibili. Infatti, il partito che aspirava a rappresentare le istanze popolari del Mezzogiorno aveva la necessità di ridefinire la propria identità rispetto al vecchio partito dell’Italia liberale:
Il vecchio socialismo, con il suo marxismo impregnato di positivismo, era stato anche quello dal cui ambito era uscita l’infelicissima frase che l’Italia si divideva tra nordici e sudici. Questa era la concezione prevalente nel Nord, contro la quale c’era stata la polemica di Gramsci (De Martino, 1991: 120).
Oltre a Gramsci, contribuì a ispirare la linea politica del nuovo partito socialista “tutto quello che avevano dato alla tradizione socialista correnti critiche, o, se volete, eretiche: Salvemini e lo stesso Dorso, Rosselli e Lussu e tanti altri” (Ibid:121).
La riflessione di questi socialisti eretici alimenta la critica di De Martino a un assetto istituzionale e politico ancora “burocratico, accentratore, oppressivo”, contro cui far valere “la costruzione cosciente di uno Stato nuovo, con organi nuovi e nuovi indirizzi” (De Martino:1954). Quindi, uno Stato partecipativo che doveva trovare le sue radici nella rottura democratica rappresentata dalla Resistenza e dalle stesse lotte contadine nel Mezzogiorno.
Nell’ambito dell’unità della sinistra, De Martino e il PSI conservano un forte tratto distintivo nella tematizzazione delle autonomie regionali e locali, grazie alle quali si poteva segnare una netta discontinuità con il passato fascista e garantire le condizioni per rendere possibile non solo la rappresentanza, ma la reale partecipazione della classe lavoratrice al potere. Scrive De Martino in “Cronache Meridionali”:
La lotta per la Costituzione nel Mezzogiorno ha compiti decisivi davanti a sé, essa è una lotta per la trasformazione della struttura economica e sociale, presupposto per la vita di una democrazia moderna, la quale possa garantire i diritti dei cittadini. (De Martino, 1954: 8).
La mobilitazione delle masse contadine meridionali, secondo questa visione che implicava reciprocamente lotta per la democrazia e lotta per l’emancipazione sociale, metteva alla prova la capacità di autogoverno delle classi popolari in attesa di una più generale riforma dell’ordinamento dello Stato. Per questo il Fronte Popolare del Mezzogiorno si impegnava in una duplice direzione: l’occupazione dei latifondi attraverso cui reclamare la riforma agraria e la conquista delle amministrazioni comunali e provinciali.
Il Fronte aveva una strategia condivisa che derivava da un’interpretazione larga della lezione gramsciana, così come veniva presentata da Giorgio Amendola, che nel 1947 era stato nominato responsabile della Commissione Meridionale del PCI. Riforma agraria, miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali e sviluppo di un tessuto democratico di base erano i capisaldi di una politica di alleanze che si spingeva oltre i confini di classe, per rivolgersi alla borghesia democratica e all’intellettualità illuminata.
Un gramscismo così esteso appariva adeguato sia al consolidamento dello spirito democratico nei territori in cui si mostrava particolarmente carente, sia alla strategia di Togliatti, che puntava al riconoscimento e all’inserimento a pieno titolo del PCI nella vita nazionale. I socialisti e De Martino, dalla loro prospettiva, contribuiscono alla costruzione di questa strategia:
[…] la rottura del blocco agrario è appunto una grande questione politica, è la liberazione dei ceti proletari e borghesi dall’oppressione dei gruppi agrari […]. E cosa devono proporsi i partiti che si sono organizzati su basi di classe, se non rischiarare il carattere della società meridionale e sostenere la possibilità dell’alleanza tra proletariato e borghesia democratica per la riforma del Mezzogiorno? (De Martino, 1949: 12).
A questa visione unitaria, tuttavia i socialisti non intendevano sacrificare il loro punto di vista sullo sviluppo industriale del Sud che si collegava all’azione meridionalistica di Rodolfo Morandi, ministro socialista dell’industria e del commercio dal luglio 1946 al maggio 1947 e fondatore della Svimez con Pasquale Saraceno.
Secondo Morandi la società italiana sarebbe diventata economicamente più omogenea soltanto promuovendo un processo di industrializzazione che prescindesse dalle “convenienze” dell’impresa settentrionale. Agricoltura, industria e infrastrutture avrebbero dovuto svolgere ruoli complementari attraverso l’impegno diretto dello Stato e della stessa impresa privata, che tuttavia si mostrava refrattaria. Si spezzava così l’identificazione tra “questione meridionale” e “questione agraria”, tipica del meridionalismo classico (con le grande eccezione di Nitti) e su cui ancora si attardava l’ agrarismo comunista (Barbagallo, 2017: 125-132).
Le occupazioni dei latifondi proseguirono per tutto il biennio 1949/50 e trovarono uno sbocco nel Movimento di Rinascita del Mezzogiorno, che si proponeva di consolidare l’esperienza pregressa del Fronte.
L’approvazione della riforma agraria del 21 ottobre 1950, pur con tutti i suoi limiti, eliminò il latifondo e contribuì a sgretolare il blocco dei grandi proprietari terrieri, che non si sarebbero più ripresi. La DC pagò pesantemente questa scelta in termini elettorali, cedendo alla destra centinaia di migliaia di voti sia alle elezioni politiche amministrative del 1952 che alle elezioni politiche del 1953, quelle della “legge truffa”. Queste ultime elezioni segnarono anche l’allineamento elettorale del voto comunista meridionale alla media nazionale. Negli stessi anni il partito socialista, che presentò liste elettorali separate dal PCI, consolidava la sua base militante in tutto il Sud; a questo irrobustimento, fortemente voluto dal segretario Rodolfo Morandi, De Martino diede un contributo fondamentale assumendo la carica di segretario della federazione napoletana del partito nel 1952 (Cervigni & Galasso, 1956: 140-156).
Tuttavia, la riforma agraria nel 1950 era già superata, “un gatto morto da seppellire”, secondo la colorita metafora di Manlio Rossi Doria. Infatti, i contadini e i braccianti protagonisti delle lotte e delle occupazioni delle terre si accingevano a diventare la manodopera a basso costo delle fabbriche settentrionali attraverso la qualeil capitalismo italiano avrebbe realizzato una fase di sviluppo che la sinistra, per miopia ideologica, riteneva fosse incapace di conseguire. In proposito, scrive De Martino:
Quanto tempo c’è voluto per capire che l’analisi gramsciana del Mezzogiorno, come si veniva sviluppando, non era più applicabile, perché nel Mezzogiorno la popolazione rurale diminuiva via via, o emigrava, o si spostava nei grandi agglomerati urbani? […] Nel ’48, nel ’49 i contadini poveri c’erano e andavano a occupare in massa le terre, più tardi i contadini non c’erano e la conquista della terra non era più desiderata. In tal modo il vecchio meridionalismo della sinistra aveva perso la sua incisività (De Martino, 1991, p. 96).
Oltre l’anno della riforma agraria, il 1950 è anche l’anno dell’istituzione della “Cassa per il Mezzogiorno”, ispirata dal riformismo keynesiano di Pasquale Saraceno. La “Cassa” fu concepita come un ente speciale cui demandare la programmazione e la gestione degli interventi dello Stato, concentrati, nella prima fase sulla creazione delle infrastrutture civili, sulle bonifiche e sull’irrigazione per l’agricoltura. PSI e PCI decisero di opporsi al progetto governativo, superando rispettivamente le obiezioni di Pietro Mancini e Giuseppe Di Vittorio.
Nel discorso parlamentare con cui De Martino annunciava alla Camera il voto contrario dei socialisti, sottolineava che la “Cassa” privilegiava, nella considerazione dell’arretratezza meridionale, “gli aspetti ambientali rispetto a quelli di ordine strutturale”; inoltre, i provvedimenti di bonifica, trasformazione fondiaria e infrastrutturazione civile previsti, non si sarebbero inseriti in un disegno organico che si proponesse, a partire dalla riforma agraria, di incidere sulle cause profonde della questione meridionale (De Martino, 1950: 19907).
La posizione socialista, così come quella comunista, partiva dalla sfiducia nell’impostazione di Saraceno; se per quest’ultimo la questione meridionale poteva essere risolta mediante interventi correttivi da introdurre nello stesso processo di espansione del capitalismo, per i primi essa rappresentava invece la contraddizione principale della formazione capitalistica nazionale, visto ancora una volta come incapace di promuovere una fase di sviluppo. Questa convinzione “fu un dato caratterizzante del frontismo” (Arfè, 1977: 25) e costituirà il forte limite dell’esperienza unitaria a sinistra, quando i socialisti se ne resero conto, ne prepararono il superamento.
Tuttavia, De Martino rivendicò sempre il voto contrario alla Casmez. Ancora nel 1977 dichiarava:
La storia dell’intervento straordinario ha dimostrato in modo indubbio quanto fosse giusta la nostra opposizione, dato che l’inferiorità del Sud rispetto al Nord si è addirittura accentuata e non basta a spiegare il fallimento del disegno governativo il carattere prevalentemente clientelare della gestione, che ha certo influito negativamente, ma non è stato il fattore determinante (De Martino, 1988: 39).
De Martino fu, con Giorgio Amendola e Mario Alicata, condirettore di “Cronache Meridionali”, la rivista fondata nel 1954 che intendeva dare voce e continuità al Movimento di Rinascita del Mezzogiorno fondato quattro anni prima. Con un lungo intervento sul primo numero, De Martino espose gli indirizzi politici della rivista e del movimento di cui era portavoce: la lotta per lo sviluppo democratico del Mezzogiorno si identificava con quella per l’attuazione costituzionale. I principi costituzionali, che rappresentavano “l’annuncio di un profondo rinnovamento della società meridionale” e “ridotti a formule vuote” dalla DC, erano diventati la bandiera della mobilitazione popolare nel Sud, con cui ottenere “una profonda trasformazione dei rapporti sociali nelle campagne” (De Martino, 1954, pp. 8-9).
“Cronache Meridionali” rappresentò l’ultimo scampolo del percorso unitario della sinistra meridionale. Il suo abbandono da parte di De Martino, alla fine del 1955, in coincidenza con l’assunzione della condirezione di “Mondo Operaio” preannunciava l’esaurimento del frontismo.
La politica unitaria rappresentata dal frontismo consentì alla sinistra meridionale di difendere le proprie posizioni, gravemente minacciate dal blocco conservatore, che in Sicilia giunse ad avvalersi della mano armata della mafia, e di rappresentare con efficacia le rivendicazioni e le istanze di emancipazione di operai, contadini, braccianti del Sud, che attraverso il Fronte del Mezzogiorno prima e il Movimento di Rinascita del Mezzogiorno dopo, entravano per la prima volta da protagonisti nella vita pubblica meridionale e nazionale.
La lotta quotidiana per la democrazia diventò il terreno privilegiato su cui sperimentare l’unità della sinistra, particolarmente ricercata nel Sud, dove nel complesso era più debole. Il PSI non assunse un ruolo ausiliario nei confronti del PCI. Come si è visto, i socialisti e particolarmente De Martino si caratterizzarono per l’accentuazione dell’istanza industrialista, derivata dall’elaborazione di Rodolfo Morandi e della lotta per le autonomie locali e regionali, viste come strumenti ed espressioni di emancipazione sociale, in continuità con il pensiero meridionalista critico di Gaetano Salvemini e Guido Dorso.
Il limite ideologico caratteristico del frontismo impedì a De Martino e ai socialisti di vedere l’anacronismo della riforma agraria e le potenzialità della “Cassa per il Mezzogiorno”, entrambe del 1950, di cui però previdero benissimo i rischi di degenerazione burocratica e clientelare cui effettivamente la Casmez si ridusse nel corso degli anni.
L’ideologismo entro cui si consumava l’esperienza del Fronte Popolare diventò alla lunga una camicia di forza che gli impedì di considerare nella giusta misura le trasformazioni del capitalismo italiano e la sua contraddittoria vitalità. Quando il PSI abbandonò il frontismo, definitivamente sull’onda dei “fatti d’Ungheria” del 1956, De Martino, che era diventato uno dei principali esponenti dell’autonomismo socialista,non rinunciò alla cura del rapporto con il PCI e tutto il vasto mondo che rappresentava, perché ne sarebbe valsa l’identità e la stessa funzione del PSI nella società italiana;mentre incalzava i comunisti sulla necessaria condanna dell’invasione dell’Ungheria, ribadiva che “il partito comunista italiano, costituitosi sulla base di lotte eroiche per la democrazia e la resistenza, non potrà sottrarsi troppo a lungo alla necessità di una politica autonoma” (De Martino, 1982: p. 129).
Il meridionalismo teorico e della prassi in De Martino contribuì a caratterizzare e a distinguere la sua linea autonomista: il partito comunista sarebbe stato necessario all’emancipazione della classe lavoratrice, da qui una competizione non escludente con il PCI, ma l’impegno a favorirne la piena adesione al metodo democratico.
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