di Antonio Salvati

La Corte Costituzionale lo scorso dicembre ha depositato le motivazioni della sentenza numero 192, che ha dichiarato illegittimi 7 punti del provvedimento di legge dell’autonomia differenziata, anche nota come legge Calderoli. La decisione accoglie in parte i ricorsi presentati da quattro regioni governate dal centrosinistra – Puglia, Toscana, Campania e Sardegna – ponendo limiti rigorosi al trasferimento di competenze dallo stato alle regioni. La Corte aveva già respinto il ricorso che chiedeva di bocciare l’intero impianto della legge – fortemente voluta dalla Lega per permettere alle regioni di gestire in autonomia materie oggi di competenza statale – ma ne aveva ampiamente rivisto i contorni. «L’autonomia differenziata non è incostituzionale in sé», scrivono i giudici della Consulta nelle motivazioni, «può essere occasione di sviluppo dei criteri di sussidiarietà, ma per esserlo ha bisogno di correzioni dei suoi meccanismi fondamentali». Pertanto, il provvedimento di fatto viene bloccato finché il Parlamento non correggerà le parti dichiarate incostituzionali. Una bocciatura selettiva ma certamente sostanziale che colpisce il cuore stesso della riforma, partendo dalla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), ovvero quei servizi fondamentali – dalla sanità all’istruzione, dal welfare ai trasporti – che lo stato deve assicurare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. La Consulta fissa paletti precisi sul trasferimento delle competenze alle regioni. La riforma prevedeva inizialmente la possibilità di delegare alle regioni intere aree di competenza statale (come l’istruzione o i trasporti). Ma la Corte ha decretato che potranno essere trasferite solo funzioni specifiche all’interno di queste aree. In alcune materie il trasferimento «potrà riguardare solo alcune funzioni e sarà sottoposto a un controllo rigoroso della Corte Costituzionale», è precisato nelle motivazioni. Energia, ambiente, commercio estero, comunicazioni e grandi reti di trasporto dovranno rimanere sotto il controllo statale, in virtù della necessità di garantire livelli di servizio uniformi in tutto il paese: sono infatti materie che, secondo la Consulta, richiedono una gestione unitaria per assicurare gli stessi standard a tutti i cittadini. In questo senso, i giudici sostengono che il loro trasferimento alle regioni «è difficilmente giustificabile secondo il principio della sussidiarietà». Degno di nota il caso della scuola. La Corte ha posto limiti chiari: «non sarebbe quindi giustificabile una differenziazione che riguardi la configurazione generale dei cicli di istruzione e i programmi di base, stante l’intima connessione di questi aspetti con il mantenimento dell’identità nazionale». La sentenza, inoltre, ha ricordato che in alcune materie prevale la regolamentazione dell’Unione Europea, mentre in altre la Costituzione riserva al Parlamento la competenza legislativa esclusiva. La Corte, infine, nelle motivazioni rigetta il meccanismo che avrebbe permesso al governo di decidere da solo, attraverso decreti, quali servizi garantire ai cittadini e con quali standard minimi, attraverso la «pretesa di dettare contemporaneamente criteri direttivi con riferimento a numerose e variegate materie». In altri termini, secondo i giudici, non si possono stabilire con un unico provvedimento del governo gli standard minimi per settori così diversi come la sanità, la scuola o i trasporti.
La Corte ha cercato di mettere delle toppe alle conseguenze gravissime che sarebbero scaturite dall’autonomia differenziata di Calderoli e della Lega che costituisce lo stravolgimento della dimensione costituzionale dell’autonomia, non più concepita come finalizzata all’emancipazione, come condizione strutturale in grado di garantire l’effettività dell’eguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive, all’art. 3, secondo comma, come compito della Repubblica, ma come fattore di separazione ed esclusione, a vantaggio dei territori più ricchi e dei cittadini più abbienti. Autonomia differenziata, appoggiata da Giorgia Meloni, che – secondo autorevoli esperti – favorirà conseguenze gravissime per i cittadini e per i loro diritti, aumentando differenze tra il Nord e il Sud del Paese già oggi molto ampie e insostenibili, nel campo dei diritti fondamentali, dei servizi e della loro fruizione.
A questo punto è lecito chiedersi come è potuto accadere tutto ciò, ossia quali eventi e quale politica ha potuto pensare e realizzare uno sconvolgimento così evidente della Costituzione italiana e del suo assetto territoriale? Una domanda che si è posto il costituzionalista Francesco Pallante nel suo volume Spezzare l’Italia. Le regioni come minacce all’unità del Paese (Einaudi 2024, pp. 144 € 13). Per Pallante la riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, che Gianni Ferrara definì «un monumento di insipienza giuridica e politica» ha di fatto rappresentato il momento culminante di un rovesciamento di prospettiva che politicamente e giuridicamente era in atto da tempo. Basti pensare alla nascita della Lega che da subito pose sul piano politico una paradossale “questione settentrionale” fondata sull’ideologia del “prima il Nord”, manifestando la forte insofferenza nel vedere le proprie sorti economiche condizionate dai “parassiti” meridionali.
Pallante spiega efficacemente le cause storico-politiche che hanno portato all’elaborazione ed alla nascita di un autentico “orrore” legislativo (una sorta di teratogenesi, come ha sostenuto qualcuno), che rischia ora di divorare la stessa Costituzione, come un piccolo virus può distruggere un grande organismo. La stura dell’ideologia del regionalismo, in realtà, prende le mosse sul piano giuridico, attraverso la legge costituzionale n. 1 del 1999, che introdusse l’elezione popolare diretta del Presidente della Giunta regionale. Il presidente nomina e revoca, a proprio piacimento, gli assessori; dirige la politica della giunta, di cui è il solo responsabile; rappresenta la regione; promulga le leggi ed emana i regolamenti; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato. Soprattutto, spiega Pallante, «controlla a bacchetta la maggioranza consiliare. Si è soliti dire che, con la riforma del 1999, i partiti d’opposizione in consiglio regionale hanno visto sminuire il proprio ruolo sin quasi all’evanescenza. Vero. Ma incompleto. Occorre aggiungere che lo stesso vale per le forze politiche di maggioranza: anch’esse hanno perso di rilievo, non potendo opporsi alle decisioni presidenziali se non a rischio del loro stesso suicidio istituzionale (lo scioglimento anticipato del consiglio e le nuove elezioni)». In ossequio dal famigerato vincolo dell’aut simul stabunt aut simul cadent (o staranno insieme o cadranno insieme), diretto a legare in maniera inestricabile la sorte dei Consigli e del Presidente. Quel che, ovunque, nelle regioni italiane si rileva è la morte cerebrale della dinamica politica consiliare: «le minoranze non hanno i numeri e la maggioranza non ha la forza per fare alcunché. Tutto è rimesso al presidente, vero e proprio sovrano del governo regionale per la durata del mandato. Non a caso, alla spoliticizzazione della vita pubblica regionale corrisponde l’iperpoliticizzazione dei presidenti – i “governatori”, come supinamente li definisce la stampa –, molti dei quali sono attori di rilievo statale piú che regionale, non di rado titolari di un ruolo pubblico superiore a quello dei ministri. Stupisce che due mandati gli sembrin poco? È l’ultima battaglia dei beniamini del corpo elettorale. Perché impedire al popolo di continuare a osannarli se dopo dieci anni non ne ha ancora avuto abbastanza?». Mentre scriviamo il governo ha impugnato davanti alla Corte costituzionale la legge regionale della Campania, in vigore dallo scorso 11 novembre, che garantisce la possibilità al governatore Vincenzo De Luca di correre per il terzo mandato. Un provvedimento fatto su misura del presidente in carica, per nulla convinto di mollare, che calza a pennello anche al doge veneto, il leghista Luca Zaia, propenso a restare, forte del consenso elettorale. Giorgia Meloni non sente ragioni di sorta, tanto più che da tempo reclama un “fratello” candidato nella regione appaltata da tempo alla Lega.
Dopo la trasformazione della forma di governo, si passa alla ridefinizione dei poteri regionali, sancita con la legge costituzionale n. 3 del 2001, approvata con una risicata maggioranza nell’ultimo giorno della prima legislatura dell’Ulivo, e poi plebiscitata tramite consultazione popolare. Si tratta del piú ampio intervento – ricorda Pallante – sinora realizzato sul testo della Costituzione del 1948: quindici gli articoli coinvolti, cinque dei quali abrogati (sicché, la Costituzione conta oggi 134 articoli, pur avendo mantenuta immutata la numerazione che arriva a 139). La principale novità «è costituita dall’ampliamento delle competenze legislative e amministrative attribuite alle regioni. Come si ricorderà, la previsione costituzionale originaria era nel senso che il potere di fare le leggi spettasse allo Stato, salvo che per un circoscritto elenco di materie in cui le regioni erano chiamate ad attuare nel dettaglio i principî uniformemente stabiliti dalle leggi del Parlamento». Il nuovo articolo 117 della Costituzione dispone ora l’esatto opposto: «la potestà legislativa generale spetta alle regioni, salvo che nelle materie riservate alla competenza esclusiva dello Stato e in quelle rimesse alla competenza concorrente dei due enti – secondo il consueto schema basato sulla distinzione tra principî fondamentali e normativa di dettaglio. Non si troverà, dunque, nel nuovo articolato costituzionale un elenco delle materie che spettano soltanto alle regioni: regionale va considerato, in via residuale, tutto ciò in cui lo Stato non ha un ruolo». Volendo farsi un’idea delle competenze rimesse alla titolarità piena dello Stato – le sole da cui le regioni sono del tutto escluse – si possono considerare i seguenti ambiti: rapporti internazionali; sicurezza esterna e ordine pubblico interno; profilassi internazionale; organizzazione dello Stato e degli enti locali; governo generale dell’economia; sistema della giustizia; cittadinanza e diritti fondamentali comuni a tutti i cittadini; rapporti con le confessioni religiose; tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Piú variegate risultano le materie rimesse alla competenza concorrente, in cui rientrano: diritti costituzionali come la salute, l’istruzione, la sicurezza sul lavoro, la previdenza complementare; attività economiche come il commercio con l’estero, le libere professioni, l’energia, la comunicazione, gli enti di credito di rilievo regionale; interventi di gestione del territorio come le reti di trasporto e navigazione, i porti e gli aeroporti, la protezione civile, la valorizzazione del paesaggio. Sono queste ultime, «ascritte alla competenza concorrente, le materie che i fautori del regionalismo differenziato vorrebbero ora far passare integralmente alla competenza regionale, in modo da circoscrivere il ruolo dello Stato alle sole materie rientranti nella sua competenza esclusiva (e nemmeno in tutte)».
I fautori del regionalismo si ammantano di un’ideologia caratterizzata dall’attitudine lombarda, veneta ed emiliano-romagnola «ad (auto)celebrarsi come l’avanguardia non tanto economica, quanto morale del Paese. Un’avanguardia che si pone a modello al resto dell’Italia e lamenta l’arretratezza altrui come un vulnus inflitto ai primi della classe, in una visione totalmente autocentrata che, rovesciando la realtà nel suo esatto opposto, si fa spudoratamente forza della denuncia della discriminazione al contrario patita dai migliori. Se a questo siamo giunti – a considerare morale abbandonare gli ultimi a sé stessi e immorale richiedere ai primi solidarietà – è per responsabilità culturali e politiche risalenti nel tempo». Responsabilità che affondano le radici in una visione complessiva delle relazioni sociali improntata all’esaltazione dell’individualismo, che hanno avuto modo di consolidarsi in una vera e propria ideologia, oggi dominante. «Avvicinare le istituzioni ai cittadini» è la sua parola d’ordine piú nota: una parola d’ordine il cui reale significato è, tuttavia, ben diverso da quel che solitamente si ritiene. In realtà, che cosa significa, in concreto, «bisogna avvicinare le istituzioni ai cittadini», nessuno lo sa. Come tutti gli slogan di successo, anche quello in questione ha una forza evocativa molto superiore alla sua capacità esplicativa. C’è davvero bisogno di spiegarlo? Di fronte a una verità autoevidente, è bizzarro interrogarsi sul suo significato. Lo abbiamo ascoltato tante volte che non può che essere cosí! Eppure, «se si considerano le implicazioni di tale visione sulle dinamiche politiche e istituzionali degli ultimi decenni – e, in ultima istanza, sulla vita pubblica –, un supplemento di riflessione sembra giustificato. Tutto muove dall’ideologia della sussidiarietà. A (dover) essere sussidiario, in tale visione, è l’intervento pubblico rispetto alle capacità private d’incidere sull’organizzazione dell’esistenza collettiva. Là dove un gruppo sociale è in grado di provvedere da sé, la “mano pubblica” non ha titolo per intervenire: questo è il cuore della sussidiarietà. La comunità locale, carente di una scuola per l’infanzia, è capace di attivarsi in autonomia? Che il pubblico si astenga dal fare alcunché. Ai bisogni di accudimento degli anziani riesce a far fronte il lavoro volontario di chi vive sul territorio? Che i servizi sociali si dedichino ad altro. Il dopo-scuola è garantito dall’operato delle associazioni di quartiere? Che i progetti per il tempo pieno siano riposti nei cassetti. È chiaro il motivo del fervore con cui la Chiesa cattolica promuove questa prospettiva: in quanto struttura socialmente radicata e capillarmente diffusa sul territorio nazionale, la sussidiarietà le dà modo di farsi protagonista di una pluralità di interventi, in risposta ai piú svariati bisogni emergenti dalla comunità dei fedeli (e non solo). Non mancano, tuttavia, fautori della sussidiarietà motivati da visioni laiche della fraternità».
Allo Stato, che della società è espressione, deve essere rimesso il minimo indispensabile; e solo là dove sia il privato a dichiarare di averne bisogno. L’idea, «evidentemente, è che lo Stato sia un male. Necessario, in alcuni casi, ma pur sempre un male». Idea supportata da una delle credenze fondamentali del nostro tempo che nega le disuguaglianze che colpiscono la vita delle persone e per la quale chi è benestante lo è perché se lo merita, così come chi è indigente. Il diverso significato della sussidiarietà intesa «in senso verticale» (una volta ammesso l’intervento pubblico, prima i comuni e poi via via a salire, fino a eventualmente arrivare, in ultimo , lo stato) entra in gioco nel momento in cui i cittadini, singoli o associati, incontrano il limite delle proprie capacità operative e sono costretti a invocare l’intervento sussidiario delle pubbliche autorità. Permane, anche in questa accezione, il pregiudizio nei confronti dello Stato, che continua a essere considerato risorsa di ultima istanza. Pubblico – avverte Pallante – non va confuso con statale. Il fallimento del privato non legittima, di per sé, l’intervento dello Stato, che per i fautori della sussidiarietà rimane un pericolo da cui guardarsi. Prima di chiamarlo in causa è bene esperire le capacità degli enti territoriali di dimensione piú circoscritta. Quelli che operano – eccoci al punto – «piú vicino ai cittadini». L’ordine corretto d’intervento «sarebbe, dunque, quello che muove dal basso verso l’alto, se si vuole usare la metafora verticistica, o, se si preferisce quella spaziale, dal piú vicino al piú lontano. E, dunque: anzitutto i comuni; poi le province e le città metropolitane (per quel che ancora rilevano); quindi le regioni. Solo infine può farsi avanti lo Stato, qualora la trafila degli enti «piú vicini ai cittadini» si sia rivelata inadeguata a trattare le questioni per cui il settore pubblico è stato chiamato in causa».
È evidente la matrice populista di tale visione. In basso, presso i governati, sta il bene; in alto, presso i governanti, il male. Il solo modo di consentire al bene di prevalere sul male sarebbe costringere i secondi ad ascoltare i primi, altrimenti destinati a rimanere preda dei propri egoismi. Una visione lontanissima dal piú accorto pensiero democratico – Hans Kelsen, Norberto Bobbio, Gustavo Zagrebelsky –, che argomenta esattamente il contrario. E cioè che, «se i rappresentanti non effettuano una sintesi delle istanze di parte espresse dai rappresentati, a dominare saranno gli egoismi di minoranza meglio organizzati, a discapito dell’interesse generale. Democratico, nell’accezione corretta, è il regime capace di tenere insieme le contrastanti istanze popolari, fondendole in una visione politica che trascenda le posizioni dei singoli e si rivolga al piú ampio novero possibile di cittadini. L’attitudine realmente democratica è includente. Per questo, centrale è il confronto politico. Fondamentale risorsa della democrazia è la discussione, non la decisione; e, se decisione dev’essere, che sia raggiunta attraverso il massimo del consenso e il minimo dell’imposizione possibili. Le istanze provenienti dal basso sono tutt’altro che irrilevanti: ma a risultare decisiva è la loro ricomposizione in unità, che può essere realizzata solo dall’alto. La pratica democratica non richiede di accostare l’una all’altra questioni disomogenee: tu voti la mia proposta e io voterò la tua. Questa è mera tattica parlamentare, priva di visione politica. La pratica democratica richiede lo sforzo di riformulare le questioni di partenza, provenienti dai diversi settori sociali, sino a addivenire a una nuova proposta in cui la piú grande parte possibile della società possa riconoscersi».
È evidente che la gestione di tutte le nuove competenze reclamate dalle regioni richiederà il trasferimento a loro favore di rilevanti risorse economiche. L’assegnazione delle nuove e ulteriori competenze alle regioni – ricorda Pallante – non sarà a costo zero, non potendo esaurirsi, se non nella propaganda dei suoi fautori, in un mero trasferimento di risorse dallo Stato alle regioni. I costi aumenteranno: è, questo, un punto su cui tutti gli studi indipendenti sono concordi.Ma il vero motore primo del regionalismo differenziato è rappresentato dalla falsa retorica del residuo fiscale. La verità è che, lungi dall’essere disposte a rinunciare a qualcosa, le regioni piú ricche pretendono sempre di piú. Pertanto, a muovere le fila di tutta la vicenda del regionalismo è il convitato di pietra del residuo fiscale. Esso è il risultato che si ottiene sottraendo dalla spesa pubblica effettuata in un determinato territorio l’ammontare del gettito fiscale generato da quello stesso territorio. Se il risultato è negativo, significa che quel territorio riceve in spesa pubblica meno di quanto versa in imposte: dunque, parte delle risorse generate dalle imposte sono distolte dal territorio e impiegate altrove. Al contrario, se il risultato è positivo, significa che quel territorio riceve in spesa pubblica piú di quanto versa in imposte: dunque, parte della spesa è finanziata tramite risorse generate da imposte riscosse altrove. Il Veneto e la Lombardia hanno dichiarato apertamente l’obiettivo di recuperare parte rilevante del residuo fiscale come motivo scatenante le loro richieste di differenziazione; l’Emilia-Romagna lo ha messo per iscritto nella documentazione ufficiale. Si tratta – sottolinea Pallante – di somme enormi: rispettivamente 18, 54 e 17 miliardi di euro, per un totale di poco meno di 90 miliardi. Il punto, tuttavia, «è che la nozione di residuo fiscale è logicamente errata e giuridicamente insostenibile. È logicamente errata perché le regioni non pagano imposte né ricevono servizi pubblici: a farlo sono le persone e, in un caso e nell’altro, a nulla rileva che siano residenti in questo o quel territorio regionale. Quel che si paga e quel che si riceve dipende dal reddito, dal patrimonio, dall’età, dallo stato di salute, dalle condizioni personali e familiari, e via dicendo: insomma, da elementi che, per la maggior parte, nulla hanno a che vedere con la residenza». Come ha spiegato l’economista Giuseppe Pisauro, intervenendo sul tema nel novembre del 2017, nella veste di presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, «gran parte della redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato dell’interazione tra programmi di spesa di cui i beneficiari ultimi sono gli individui sulla base di caratteristiche che prescindono dall’area di residenza – quali l’età, lo stato di salute, il reddito – e delle modalità di finanziamento di tali programmi». Attribuire alle regioni ciò che è proprio delle persone per Pallante «è una fallacia argomentativa insuperabile. Ed è anche una pretesa giuridicamente insostenibile perché la Costituzione, agli articoli 2 e 53, impone doveri di solidarietà economica, politica e sociale ai cittadini in quanto tali, e non ai veneti nei confronti dei veneti, ai lombardi nei confronti dei lombardi e agli emiliano-romagnoli nei confronti degli emiliano-romagnoli. Di nuovo, il territorio di residenza non assume rilievo alcuno, pena la frammentazione dell’unità nazionale, a partire dal popolo che ne costituisce la base». Il principio costituzionale della progressività fiscale (art. 53) implica una redistribuzione della ricchezza tra concittadini dello Stato, quale strumento attraverso cui sviluppare il legame sociale tra le persone: rattrappire la redistribuzione al livello dei corregionali, a discapito dei connazionali, significa sancire il prevalere dell’appartenenza regionale su quella nazionale. In aperta violazione dell’articolo 5 della Costituzione.
Eppure, c’era una volta la questione meridionale, sottolineerebbero molti storici. Sviluppatasi fin dai primi anni Settanta dell’Ottocento, dopo qualche decennio era a tal punto riconosciuta da poterla dare per ovvia. Come scrisse il famoso meridionalista Giustino Fortunato all’inizio del nuovo secolo, «che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno piú mette in dubbio». È evidentemente impossibile darne conto, nei suoi articolati profili storici, economici, sociali, culturali, politici, amministrativi. Quel che è opportuno sottolineare è che, sin dai primi anni dell’unificazione nazionale, a fronte della spaventosa e conclamata miseria che segnava le regioni meridionali dell’Italia rispetto a quelle del Nord, la classe dirigente italiana – o meglio le sue componenti piú avvedute – si confrontò continuamente intorno all’adozione di due strategie alternative. È noto quanto a coloro che ritenevano irrecuperabile il ritardo del Mezzogiorno senza che l’amministrazione pubblica realizzasse interventi speciali di sostegno si contrapposero coloro che, per sanare la situazione, confidavano nelle virtú del libero mercato. Statalisti, i primi; liberisti, i secondi: tutti, in ogni caso, preoccupati della divaricazione – crescente – tra Nord e Sud e desiderosi di contrastarla.
Oggi, in realtà l’ideologia regionalista è la sola che sia riuscita a ritagliarsi uno spazio al cospetto del pensiero unico neoliberista che da decenni si è diffuso in Italia. Non casualmente: cosí come i mercati, anche le regioni, per come si sono venute configurando, hanno – come sostiene Pallante – «come nemico lo Stato e condividono il disconoscimento dell’uguaglianza come valore. Lungi dal ritenere la diseguaglianza un problema da rimuovere, neoliberismo e regionalismo vedono entrambi nella disparità di condizione dei soggetti – siano essi singoli individui o enti territoriali – l’occasione d’innesco di una competizione da cui i migliori emergeranno vincitori. Nella sua volgarità, la metafora dello sgocciolamento, per cui è bene riempire all’eccesso il bicchiere dei ricchi, dal momento che alla fine sverserà qualche goccia con cui anche i poveri potranno dissetarsi, ne è forse l’espressione piú schietta». Ma, allo stesso tempo, anche quella piú lontana dalla visione di società promossa dalla Costituzione italiana, incentrata, all’opposto, sull’idea che benessere individuale e benessere sociale siano tra loro inscindibili e che solo realizzando ovunque sul territorio nazionale le condizioni per «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, co. 2, Cost.) sarà possibile consentire a tutti di essere cittadini a pieno titolo in campo politico, economico e sociale. È ciò che rappresenta la distinzione tra destra e sinistra, secondo l’insegnamento lasciatoci da Norberto Bobbio: quella che, in definitiva, consente di individuare nel regionalismo odierno una coerente declinazione del neoliberismo.
Per porre riparo ai danni realizzati dall’ideologia regionalista la via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione la possibilità stessa dell’autonomia regionale differenziata, ossia una riforma della Carta fondamentale, che con l’occasione provvedesse altresí a correggere le storture della sconsiderata revisione del 2001. Si tratta di un’ipotesi ideale, ma di difficile realizzazione per via del quadro politico odierno. Pallante suggerisce di concentrarsi sul terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, «circoscrivendo le nuove competenze richiedibili dalle regioni, ponendo rigorose tutele finanziarie a beneficio dello Stato e delle regioni non interessate a differenziarsi, introducendo una clausola di supremazia statale a tutela dell’interesse generale, prevedendo la possibilità di sottoporre a referendum approvativo e abrogativo la legge di recepimento dell’intesa». È la direzione verso cui muoveva la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare (sbrigativamente respinta dal Senato nel gennaio del 2024 dopo una “discussione” durata un paio d’ore): un tentativo di far emergere le contraddizioni trasversali alle forze politiche, altrimenti destinate a rimanere ingessate nella contrapposizione parlamentare ordinaria.
Concludendo non è possibile esimersi dal chiedersi: l’idea dell’Italia unita – e cioè di un’Italia che, pur con le sue diversità, preferisce la solidarietà alla competizione, la collaborazione al conflitto, l’altruismo all’egoismo – è un’idea a cui crediamo ancora? O ci siamo rassegnati – come sottolinea Pallante – alla presa d’atto «che l’utopia risorgimentale è, infine, fallita e che l’unico orizzonte unitario che ci rimane è quello circoscritto ai confini regionali?» E ancora: dinanzi alle sfide del mondo contemporaneo – il rischio atomico, il proliferare della violenza, la crisi ambientale, le diseguaglianze economiche e sociali – in quale veste collettiva ci vediamo collocati: in quella di cittadini italiani o in quella di cittadini della regione in cui viviamo? Ci interessa qualcosa di quel che accadrà al capo opposto del Paese oppure pensiamo che non sia un problema nostro? Per chi ancora crede nel disegno attraverso cui i costituenti, usciti dal disastro compiuto dal fascismo, vollero rinnovare il sogno risorgimentale, il riferimento obbligato rimane il principio fondamentale che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica sancito all’articolo 5 della Costituzione. È lí l’ancoraggio imprescindibile, che ancora può impedirci di precipitare nel baratro: in effetti, il solo in grado di scongiurare il pericolo che l’Italia sia ridotta a una scomposta accozzaglia di frammenti, a detrimento non soltanto dello Stato, ma delle regioni stesse; e, in definitiva, di tutti noi. Sono le domande ineludibili che Pallante ci pone. Domande che richiedono una rinnovata resistenza culturale per il nostro bene e per il bene del paese. Un impegno patriottico, per restare umani.

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