Articolo di Giovanni Capurso

Un popolo, quello del Sud, e una comunità, quella di Scanzano Jonico, alzarono la testa. Nell’autunno 2003 la notizia della decisione del Governo di attivare un deposito nazionale di scorie nucleari nel territorio della piccola comunità lucana spiazzò tutti. L’annuncio scosse le coscienze e ogni altro problema sembrò marginale. La notizia rimbalzò di bocca in bocca, di sguardo in sguardo. Tra sabato e domenica di metà novembre, iniziò a delinearsi un quadro più preciso dal punto di vista delle intenzioni politiche. Rapidamente si alzò un moto di indignazione popolare, che sin dal primo momento si caratterizzòper l’assoluta non violenza e determinazione. Da lunedì 17 in poi, in tutta la provincia di Matera e nella vicina Puglia, ci fu un crescendo di mobilitazioni ed iniziative di agricoltori, artigiani, studenti e comuni cittadini.
In quei giorni, che a distanza di vent’anni non sembrano troppo lontani, giovane neolaureato alla ricerca di una strada nel mondo, con un crocchio di amici a bordo di una utilitaria, decidemmo di unirci a quella che si sarebbe rivelata una poderosa manifestazione. Un fiume di persone si riversò per strada. C’erano bambini tenuti per mano dai genitori, tanti uomini e donne di buona volontà e striscioni con scritte “scorie ad Arcore!”. Tutti uniti contro il deposito unico delle scorie nucleari a Scanzano, in una terra da sempre dimenticata, per chiedere dignità e rispetto.
Quelle giornate nel Metapontino probabilmente furono la più significativa esperienza di lotta civile vissutain tempi recenti nel Meridione d’Italia per l’affermazione di uno sviluppo eco-sostenibile e contro il degrado sociale e culturale imposto da logiche predatorie neoliberiste.
Anche oggi il tema è della massima importanza perché i governi sono ancora alla ricerca di un sito nazionale (che pur dovrà essere trovato) e dal 2020 sull’Italia pende una procedura d’infrazione della Commissione Europea in quanto il suo programma di gestione dei rifiuti radioattivi non rispetta la direttiva in materia di combustibile nucleare esaurito e rifiuti radioattivi.
Lo scorso anno il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha reso pubblico sul proprio sito l’elenco delle aree presenti nella proposta di Carte Nazionale delle Aree Idonee (CNAI), che individua 51 zone dove poter realizzare in Italia il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e il Parco Tecnologico, al fine di permettere il lo stoccaggio delle scorie in via definitiva. Si tratta di rifiuti in gran parte “di bassa e media attività” che provengono prevalentemente da impianti mai entrati in funzione, ma anche dalle attività mediche e ospedaliere, ormai quotidiane (come ad esempio quelle che producono sostanze radioattive usate per la diagnosi clinica o le terapie antitumorali), e industriali. La Carta è stata elaborata dalla SOGIN e approvata dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione.
Quali sono stati i criteri individuati? Andando per esclusione si è tenuto conto della densità abitativa (quindi aree non eccessivamente antropizzate), del rischio sismico e idrogeologico, della presenza di siti Unesco e aree protette, ma anche dell’altitudine, che dev’essere inferiore ai 700 metri il livello del mare; le aree poi non devono avere dei versantitroppo scoscesi.
Quasi tutti i siti individuati si trovano nel Centro e Sud Italia, e buona parte in un territorio compreso tra la Puglia e la Basilicata. Molti siti individuati sono anche nel Lazio. Il Ministero aveva già aperto alle autocandidature per gli enti territoriali le cui aree sono presenti nella proposta CNAI, come previsto dalla procedura, ma ovviamente nessuno di questi ha manifestato interesse. Inoltre, comprando questo ultimo elenco con la precedente Carta pubblicata del gennaio 2021 che individuava 67 aree idonee, non sfuggirà che, nonostante i criteri per la scelta siano rimasti invariati, sono state eliminati i siti del torinese.
Ogni comunità locale ha le sue buone ragioni per non volere le scorie: paesaggistiche (ricordiamo che il territorio dell’Alta Murgia e delle Premurge è stato appena proclamato Geoparco Mondiale dell’UNESCO), agroalimentari, o semplicemente legate alla paura. Ma l’impressione è che, rispetto a tanti anni fa, l’interesse sul tema si sia affievolito. Se escludiamo qualche mozione nei Consigli comunali delle aree interessate e qualche iniziativa, pur meritoria, di partiti e movimenti ambientalisti, sembra che il problemanell’opinione pubblica stia passando sotto traccia.

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