Articolo di Valentino Romano
Anni addietro, in occasione di un importante Premio letterario che si teneva nella Casa della Cultura Leonida Repaci”, l’allora Assessore alla Cultura di Palmi, Santino Salerno, accompagnò Raffaele Nigro e il sottoscritto a visitare la sezione di Etnografia e Folklore “Raffaele Corso”.
Tra i numerosi reperti conservati faceva bella mostra di sé un presepe, le cui statuine erano state pazientemente assemblate da un sacerdote, don Antonio Rotondo, parroco di Fiumefreddo Bruzio, seguendo una tematica che – evidentemente – gli era stata particolarmente a cuore, quella delle classi subalterne, degli ultimi, dei cosiddetti “marginali” della Storia; (che poi, vabbè, a dirla proprio tutta, sarebbero quelli che la Storia la fanno per davvero, anche se spesso solo subendola, ma questo è altro discorso …).
Trovavano posto nel presepe di don Antonio, secondo tradizione, i mestieri umili di una società agropastorale sette-ottocentesca, l’abbigliamento popolare, le occupazioni del quotidiano delle popolane (raccoglierele fascine per il fuoco, attingere l’acqua alla fontana, lavare i panni) e quelle dei loro uomini intenti ai lavori più pesanti. Insomma, uno spaccato del quotidiano delle classi subalterne calabresi dell’epoca.
Tra le statuine ve n’era una, però, che attirò la mia particolare attenzione; vicino alla capanna del Mistero, un giovane, avvolto in un lungo tabarro nero e con il capo coperto dal caratteristicocono a pan di zucchero; un volto dai tratti delicati, lo sguardo a metà tra l’assorto e il vigile, l’espressione lievemente malinconica ma distesa …; nessun altro segno distintivo indicante condizione e mestiere, particolare questo che lo rendeva “diverso” da tutte le altre statuine.
Ne chiesi conto a Santino, finissimo intellettuale e profondo conoscitore della cultura della sua terra (e non solo); m’incuriosiva conoscere cosa rappresentasse.
La risposta mi lasciò senza fiato: “è il fuitu”, un “bannito” – uno di quelli di cui ti occupi tu – un fuggiasco, un fuorbandito”.
E giù una storia che oggi mi fa particolarmente riflettere: anticamente, nella notte di Natale, si concedeva una sorta di salvacondotto ai latitanti (qualunque fossero i reati per cui erano alla macchia) per assistere alla Messa di Natale, per trascorrere la Notte che io chiamo della Luce con i propri affetti famigliari. Il giorno poi sarebbe venuto, la latitanza rinnovata così come la caccia al latitante.
Ma quella notte, no, quella era la notte della pace, la notte in cui le armi, tutte le armi, dovevano tacere.
Per questo il “brigante” era rappresentato senza armi, un unicum nell’iconografia brigantesca
Son passati secoli dalla datazione di quel presepe; la civiltà è progredita. Anche i presepi si sono rinnovati, da qualche parte vi si inseriscono personaggi della politica dello spettacolo, dello sport; restano, comunque, lo specchio dei tempi.
Eh sì, i tempi: oggi, al posto della stella cometa, ci starebbe bene (come ho visto in un’efficace vignetta per i social) un razzo con tanto di scia; al posto dei Magi una pattuglia militare o di polizia; per capanna i resti di un’imbarcazione naufragata; il Bambinello dai riccioli biondi, sostituito da un fagotto di stracci con i capelli neri e crespi; insomma, se il presepe deve essere lo specchio dei tempi … che lo sia fino in fondo.
E il “fuitu” che mi colpì tanti anni addietro a Palmi, che fine ha fatto?
Non c’è, semplicemente non c’è!
E non può esserci! Perché non si firmano più quei salvacondotti… la Notte di Natale è diventata una notte qualunque, una normale notte di guerra.
I tempi cambiano … il progresso avanza inesorabile.
Già, ma chi l’ha detto poi che il passato è sempre meno “civile” del presente?
Chiamatemi pure retrograde, non me la prendo (anche perché so di non esserlo): io, però, continuo a rimpiangere il “fuitu” del presepe antico di don Antonio.
Per me il Natale vero resta quello. Poi, ça va sans dire, … ad ognuno il suo!