Articolo di Vincenzo Scalia
Juve in trasferta, Calabria deserta è uno slogan che risuona, in senso denigratorio, negli stadi italiani. A sottolineare il largo seguito che la squadra bianconera, la più scudettata d’Italia, gode nel Sud Italia e nelle Isole. Soprattutto, ad associare l’Italia Meridionale con le malefatte che generalmente vengono attribuite alla società torinese, nonché a rimarcare il luogo comune dei terroni che cercano le scorciatoie e le vittorie facili. A Sud, viceversa, vige tra gli anti-juventini una sorta di pregiudizio neo-borbonico, per cui il meridionale deve essere scevro di ogni cosa che proviene dal Piemonte e dal Nord, inclusa la squadra di calcio. Due atteggiamenti speculari, che negano la spontaneità della passione calcistica, oltre a ignorare la complessità dei fenomeni sociali che si annidano dietro il tifo.
In merito al primo aspetto, se è vero che il calcio rispecchia il divario tra le due Italie, tanto che gli scudetti sono quasi esclusivamente appannaggio delle squadre torinesi o milanesi (anche se su quest’ultime i pregiudizi sono molto minori), è vero altresì la passione calcistica spesso è filtrata dal seguito che le squadre ottengono in seguito ai loro successi o alla presenza di giocatori di spicco tra le loro file. Cabrini, Bettega, Platini, per quelli della generazione di chi scrive, erano calciatori di bravura riconosciuta internazionalmente, a cui ispirarsi. Come loro, anche giocatori come Keegan, Kempes, Crujiff, Pelè, erano idoli per i ragazzi nati nei primi anni settanta. E non erano certo nati in riva al Po, o nei paraggi.
Riguardo al secondo aspetto, se seguiamo la scia di autori come Alessandro Dal Lago e Richard Giulianotti, possiamo comprendere più in profondità le ragioni della vasta popolarità di cui la Juve gode al Sud. Questi autori, sulla scia di Marcel Mauss, inquadrano il calcio come un fenomeno sociale totale, che rispecchia, cioè, tutte le contraddizioni di classe, di etnia, di cultura, di nazionalità, che attraversano la società. Basti pensare alla ex-Jugoslavia, dove la guerra civile fu preparata sugli spalti, quando i club serbi si coalizzarono contro quelli croati, che si coalizzarono contro i bosgnacchi, a sua volta opposti a macedoni o montenegrini. Sugli spalti si formò la spina dorsale delle bande paramilitari che commisero le tristemente famose efferatezze dei primi anni novanta.
Per comprendere il tifo meridionale per la Juve, dobbiamo risalire alla Torino a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta. Si trattava di una città in espansione economica e demografica, uno dei centri motori (letterale e figurato), del boom economico, grazie all’espansione della FIAT, che arrivò a occupare, in quegli anni, 150.000 persone nei suoi stabilimenti cittadini. Mirafiori, con 57.000 addetti, diventò il secondo stabilimento industriale europeo dopo quello Volkswagen di Wolfsburg.
La manodopera addetta all’industria metalmeccanica affluì in massima parte dal Sud e dalle Isole. 800 mila persone di origine meridionale, siciliana e sarda, si stabilirono nell’area metropolitana torinese. La metà, nel capoluogo. Si trattò di uno sconvolgimento del tessuto demografico della metropoli subalpina, che si intrecciò ad un mutamento significativo nella composizione di classe. Agli operai torinesi, qualificati, politicizzati, portatori dell’esperienza e della memoria storica della Resistenza e delle lotte, si sovrappose quello che presto venne definito come l’operaio massa. Dequalificato, pronto per lavorare alla catena di montaggio, privo di memoria storica e di coscienza politica. O meglio, desideroso di rimuovere il ricordo bruciante dell’esperienza della repressione delle lotte contadine nelle zone natali. Spesso assunto con l’intercessione del prete o dei carabinieri del paese locale che, con una lettera, assicuravano alla direzione della multinazionale torinese che non si trattava di persone sovversive. E disposto a lavorare a un salario inferiore a quello dei suoi colleghi torinesi.
La classe operaia subalpina non tardò ad identificare gli operai e le operaie meridionali con la strategia di restaurazione padronale, che già si era manifestata con la creazione dei cosiddetti “sindacati gialli”, con l’istituzione dei reparti-confino dove collocare le avanguardie di fabbrica e con l’impiego di ex-membri dell’OVRA, la polizia fascista, per vigilare sulla vita degli stabilimenti industriali. I terun erano dei crumiri da emarginare, anche per le loro modalità di interagire estranee all’ethos locale, che vivevano in sovraffollamento in case malsane. Basti vedere il documentario di Ugo Zatterin, Meridionali a Torino, o leggere L’Immigrazione meridionale a Torino di Goffredo Fofi, per tracciare un parallelo con le migrazioni contemporanee.
Pur vivendo nella stessa città, lavorando nella stessa fabbrica, continuavano ad esistere due Italie. La separazione si rifletteva anche nei momenti di socialità. Nel caso del calcio, la classe operaia torinese, era spesso di fede torinista, in contrapposizione con la squadra dei padroni, ovvero la famiglia Agnelli, che riscuoteva più seguito presso la classe media. Ne conseguì che i nuovi torinesi, sia come reazione alla loro marginalità sociale, sia per esprimere una loro soggettività, non tardarono ad affollare le schiere del tifo bianconero, affiancati dai loro parenti ed amici rimasti a casa, che cercavano in questo modo di mantenere un collegamento con chi era emigrato. Il tifo per la Juve sanava la frattura che l’emigrazione di massa aveva aperto all’interno della società meridionale, mentre a Torino rappresentava una resistenza ai pregiudizi.
Le questioni di classe e di cultura non tardarono a manifestarsi. Sin dalla rivolta di piazza Statuto del 1962, per arrivare all’autunno caldo del 1969, la classe operaia meridionale cominciò a manifestare la propria soggettività antagonista, esprimendo forme di lotta autorganizzate, al di fuori dei canali istituzionali dei partiti e dei sindacati, arrivando ad affollare le schiere delle formazioni extraparlamentari. Fu nei primi anni Settanta che Lotta Continua creò il personaggio di Gasparazzo, ovvero il contadino meridionale emigrato al Nord, diventato operaio alla catena di montaggio, portatore di una nuova cultura politica e sindacale. Si arrivò così a due sbocchi inaspettati: sul piano politico, i crumiri terroni scavalcarono a sinistra il partito (inteso come il PCI) e i sindacati. Sul piano calcistico, Gasparazzo era juventino, mentre Cipputi continuava ad essere torinista.
La Juventus, in quegli anni, divenne l’articolazione calcistica della voglia di riscatto della classe operaia meridionale emigrata a Torino. Cuccureddu, Longobucco, Furino, Causio, Anastasi, Brio, erano la proiezione delle aspirazioni ad una vita migliore dei loro conterranei, di cui spesso condividevano la traiettoria esistenziale, che sgobbavano alle presse o alle fonderie. Nonché quella di chi era rimasto al Sud e nelle isole, che trovava più facile identificarsi in loro che in squadre che schieravano i padanissimi Bedin, Lodetti, Anquilletti o Corso. Esemplificativa a questo proposito la risposta che Anastasi diede a un tifoso che lo epitetò con l’appellativo di “terrone”: sarò pure terrone, ma guadagno molto di più di te che sei un polentone! Per quanto la famiglia Agnelli avesse scelto, come ebbe a dire alcuni anni dopo Umberto, di ingaggiare calciatori meridionali per attenuare la conflittualità degli operai in fabbrica, il risultato non venne raggiunto, e ci volle la marcia dei 40 mila impiegati del 1980 (la maggior parte dei quali torinesi) per spezzare un ventennio di lotte operaie.
Dagli anni Ottanta del Novecento in poi comincia un’altra storia, che ha sbiadito quella più recente. Anche per questo è necessario ripescare Gasparazzo. Per ricordare che il tifo calcistico rappresenta un fenomeno complesso. Per capire che il calcio proietta anche la voglia di riscatto sociale. Per essere meno antijuventini, se ce la si fa. Ma, soprattutto, per non essere antimeridionali.