Articolo di Ciro Esposito
L’impegno di uno sparuto gruppo di intellettuali e di qualche forza politica minoritaria è riuscito a mettere in evidenza la sperequazione esistente nella distribuzione degli asili nido tra il Nord e il Sud del Paese e a impostare una battaglia politica per sanarne le differenze. Come è noto, gli impegni assunti sugli asili nido dal Governo Draghi nel 2022 (tutti i Comuni avrebbero dovuto raggiungere il livello minimo del 33% di bambini al nido entro il 2027) è stato recentemente disatteso dal Governo Meloni, che ha ridotto notevolmente tale soglia (il 15% minimo su base regionale), con conseguente taglio delle risorse programmate per l’obiettivo.
Un’ altra sperequazione territoriale e scolastica rimane invece nell’ombra, quella che riguarda il tempo pieno (alla scuola primaria, fino a 40 ore settimanali) e prolungato (alla scuola media, 30 ore settimanali).
Sebbene la legge 820/71, che istituiva il tempo pieno e prolungato, non fosse stata pensata per il Sud, fu chiaro fin da subito che sarebbe stata uno strumento utilissimo per contrastare dispersione scolastica e povertà educativa, molto più rilevanti al Sud rispetto al Nord (e spesso altrettanto rilevante nelle aree interne rispetto alle aree urbane e nelle periferie popolari rispetto ai centri urbani).
Il progetto del tempo pieno e prolungato nacque con grandi ambizioni, in linea con l’afflato riformistico degli anni Settanta. Infatti, il tempo pieno si proponeva di integrare l’attività curricolare con le attività che avevano un valore educativo oltre l’ambito scolastico. L’ambizione era duplice: aprire le porte della scuola alla società e far uscire la scuola sul territorio; è infatti grazie al tempo pieno e prolungato che si svilupparono e potenziarono le “educazioni” ambientale, alimentare, motoria, che costituivano un nodo in cui scuola e società si intrecciavano e influenzavano a vicenda. Questa carica trasformatrice della legge cominciò a depotenziarsi con il riflusso dell’impegno e delle lotte sociali, per cui negli anni Ottanta ha funzionato essenzialmente lì dove era più ricco il territorio, più forte il legame sociale e notevolmente più alto il tasso di occupazione femminile. La legge 820/71 subordinava l’istituzione del tempo pieno e prolungato “all’esistenza delle risorse in organico e alla disponibilità di adeguati servizi”; risorse e servizi, carenti al Sud, diventarono, insieme al disinteresse delle classi politiche locali, degli ostacoli che rivelarono insormontabili per l’estensione del tempo pieno e prolungato al Sud, dove rimase un’esperienza minoritaria, anche se non marginale.
Tra gli anni Novanta e Duemila il tempo pieno e prolungato venne ridimensionato e stravolto rispettivamente dai ministri Luigi Berlinguer, del centro-sinistra, e Letizia Moratti del centro-destra. Sono i decenni in cui la restaurazione si ammanta di nuove e accattivanti formule, che accompagnano e coprono il definanziamento della scuola statale.
Al definanziamento della scuola pubblica si aggiunse la riforma federalista del 2001, che aggravava in maniera considerevole il divario tra Nord e Sud: il suo impianto ideologico, d’impronta neo-liberista, condiziona ancora adesso le scelte della politica e l’orientamento dell’opinione pubblica.
E’ per questo che non suscita lo scandalo che meriterebbe la denuncia dei divari tra la scuola del Nord e del Sud contenuta in “Scuole disuguali”, il rapporto annuale di “Save the Children” pubblicato nel settembre 2024 (lo trovate al seguente link: https://s3-www.savethechildren.it/public/allegati/scuole-disuguali.pdf).
“Scuole disuguali” denuncia con dovizia di dati, come il sottofinanziamento della scuola statale incida drammaticamente al Sud, una delle regioni europee con i livelli più alti di dispersione scolastica, mentre il Nord risulta in sostanza allineato con la media UE, sebbene in maniera disomogenea al proprio interno.
Il rapporto di “Save the Children” ha il merito di mettere in relazione i dati della dispersione scolastica con quelli della presenza di mense funzionanti e palestre attive, elementi la cui carenza contribuisce in maniera decisiva a non rendere fruibile il tempo pieno e prolungato e ad alzare i livelli della dispersione scolastica.
In un quadro così compromesso non riescono a incidere i pur ingenti stanziamenti del PNRR, che riescono ad essere valorizzati – e anche lì solo parzialmente – dove territorio e scuola sono già strutturati per accoglierli e quindi, come sta accadendo per gli asili nido, premiano chi già sta meglio.
Inoltre, considerato l’orientamento del Governo di proseguire l’attuazione dell’autonomia differenziata nonostante la sostanziale bocciatura della Corte Costituzionale, sarà molto difficile che venga accolta la proposta di “Save the Children” di riequilibrare l’offerta formativa definendo e finanziando Livelli Essenziali delle Prestazioni che garantiscano istituzione e accesso alla mensa (rendendolo gratuito per chi è in condizione di povertà) e tempo pieno e prolungato.
In questo clima rischia di perdersi anche la denuncia della Svimez: un bambino di Napoli (e di Bari e di Palermo) conclude la quinta elementare con un anno di tempo-scuola in meno rispetto a un coetaneo del Centro-Nord, con tutto ciò che ne consegue in termini di istruzione e socialità.
Eppure non è solo colpa del Governo o dei tempi che corrono. La politica meridionale ha forti responsabilità per le condizioni in cui versano scuola e istruzione nel Mezzogiorno, avendo preferito promuovere e finanziare progetti temporanei e attività precarie (in Campania le varie “Scuole Aperte” e “Scuola Viva”) piuttosto che impegnarsi per dare continuità al tempo-scuola e stabilità agli organici, le basi da cui partire per contrastare dispersione scolastica e povertà educativa e obiettivi per i quali occorre un’alleanza virtuosa tra enti locali, insegnanti, cultura meridionalistica e politica democratica.