Saggio breve di Marco Cardetta
2.1 Non credo nel meridionalismo, ma credo nel meridione
Dicevamo: non credo nel meridionalismo, eppure credo nel meridione. Ora spiego. Al Sud non manca nulla, non mancò mai nulla (data la sua centralità, data la generosità della natura, data la sua storia e cultura), se non la fiducia in sé, la capacità di parlare un linguaggio di modernità, pur conservando le sue peculiarità anticapitalistiche (che il sottoscritto rileva).
Il Sud, a parere del sottoscritto, ha più che altro problemi psicologici, che in una comunità si trasformano in problemi antropologici. Il primo di questo problemi è appunto la scarsa fiducia in sé: è un artista che crede di non farcela, è uno sportivo talentato che non crede nelle sue possibilità. Il locus of control però, l’autostima, il senso di autoconsapevolezza e autoefficacia, nelle proprie forze, è la qualità prima di qualsiasi grande personalità. Maradona non è mai entrato in campo dicendo: “Beh tanto oggi mi sa che si perde…”
Il Sud da troppo tempo nutre di sé un’immagine da macchietta, di scarsa serietà, di ancillarità rispetto ad un centro di cui si avverte periferia, cui ha continuo bisogno di chiedere. Subisce un’identità ed una narrazione.
Dalla scarsa fiducia in sé si dipana un grumo di “difetti” antropologici (li chiamo così), gravame che impedisce il passo lungo e l’ascesa: il familismo amorale, l’anarcoidismo (anarchismo è nobile, l’anarcoide è un problema), il narcisismo, egocentrismo ed individualismo esasperati, l’arroganza guascona di chi trase in un’azienda e il giorno dopo pensa di dover dipendere totalmente da qualcuno o al contrario pretende di dire come bisogna gestire l’azienda (questo il problema spesso nel trovare personale al Sud, quando il mondo dell’infosfera globale e dei mestieri odierni richiede la capacità di operare in autonomia e al contempo in maniera coordinata col gruppo, la cosa che vien richiesta nella maggior parte dei colloqui d’assunzione), l’undicesimo comandamento (“Fotti il prossimo tuo, prima che egli fotta te…”), l’incapacità di fare squadra.
All’altro polo di questo grumo di difetti, che parte dalla sfiducia in sé, si trova la deresponsabilizzazione, grande vizio nazionale.
(Piccola parentesi, un esempio epifenomenico di questo vizio sono i neoborbonici: il collasso del mondo borbonico per questa scuola di pensiero è sempre colpa di qualcun altro, di complotti, manomissioni, corruzioni, intrighi sofisticatissimi, mai colpa dei meridionali e/o dei regnanti del tempo. La verità è che quando perdi una guerra, perdi e basta. Lagnarsi perché l’altro ha giocato sporco è assai poco interessante e improduttivo. Assai più interessante trovare le cause interne di quel collasso, nonché del fallimento del ribellismo che ne seguì).
Eduardo c’ha scritto Questi fantasmi sulla deresponsabilizzazione umana. Probabilmente perché da meridionale nei meridionali la vedeva più facilmente. Sempre pronti ad inseguire e incolpare fantasmi siamo: che sia Salvini, questo e quest’altro. Dovremmo chiederci piuttosto: perché continuiamo a farci condizionare, a farci comandare, e non influenziamo?
Quando tiro un rigore, se il portiere para, dovrei preoccuparmi di auto analizzare l’accaduto per capire perché ho sbagliato il rigore. Non posso certo lamentarmi perché il portiere ha fatto quello che è il suo compito e interesse. O cominciare a lamentarmi sul fatto che forse la porta non è regolamentare, la palla troppo grossa, le luci del campo mi hanno accecato, fino a dire che l’arbitro è cornuto.
Altri giocatori fanno gol. Se ho sbagliato è solo colpa mia. Amara verità da adulti che un’Italietta ormai da troppo tempo infantile non riesce ad ingurgitare. Il Sud in questo è campione.
Tradotto: che Roma sia ipertrofica, o che il Nord voglia sempre fregare il Sud, è quasi nella natura delle cose. Bisognerebbe chiedersi piuttosto perché il Nord riesce sempre o spesso a fregare il Sud.
Che leghisti e similari facciano il loro gioco, sta nell’ordine delle cose. Parafrasando Jessica Rabbit, non è colpa loro: li “hanno disegnati così”. Così se parlare di meridionalismo vuol dire continuamente lamentarsi, criticare ciò che altrove viene deciso (soprattutto spesso senza alternativa e pars construens), il sottoscritto lo trova assai poco interessante.
Se meridionalismo significa citare continuamente gli antichi, quasi da ipse dixit falsato, i padri del meridionalismo – Fortunato, Salvemini, ecc. – beandosi di una sorta di codice esoterico di conoscenza di testi di culto, per dimostrare che i problemi di ieri sono quelli di oggi, che ieri il Nord lo metteva in saccoccia al Sud quanto oggi, e con similari modalità: ancora un atteggiamento assai poco produttivo.
Se meridionalismo significa far la parte della cenerentola lagnosa, o del Calimero povero e nero, del figlio dimenticatodi un’eredità divisa male in cui i fratelli han barato, puntando il dito su ciò che il Nord ha e il Sud non ha, o peggio ancora limitandosi a questioni nazionali: ancora il meridionalismo ha poco senso.
Per di più nel mondo che viviamo! Oggi tutto ciò che avviene in un punto del globo è – ancor più di ieri perché più velocemente – connesso, causato e interlacciato con tutto il resto. Il mondo è g-locale: tutto si decide ovunque e tutto influenza tutto. Pensare di lamentare ciò che accade a Bari in maniera particolare e rimproverarlo a Roma è anacronistico.
Anche perché la politica spesso ha margini assai stretti all’interno di dinamiche economiche ormai superiori e preponderanti (ahinoi!). (Che andrebbero cangiate ovviamente, ma per il momento son così). Roma decide quel tanto che può, fin tanto che Bruxelles glielo permette e per quel che il potere oligopolistico delle multinazionali influenza, in modo più o meno legittimo.
Per di più – lamentarsi di politiche sbagliate sul Sud, in agricoltura ad esempio, da parte di Bruxelles, è assai poco onesto, perché quando si guardano i dati relativi al provincialismo degli italiani, e dei meridionali soprattutto, facilmente ci si rende conto che il Sud non gioca al gioco politico. L’astensionismo. Non si vota alle elezioni europee: l’affluenza alle ultime è stata di circa il 48% a livello nazionale, manel Sud e Isole tra il 43 e 37%, i dati più bassi appunto. Di che vi lamentate se non partecipate alla partita?
Così, se la prospettiva deve essere quella del chiedere, di chi concepisce il potere come un qualcosa che viene sempre da un soprae a cui sottostare (perché ci si avverte sempre sotto), la prospettiva del questuante e dipendente – perenne vittima di un’ingiustizia perpetrata e decisa in un altrove (esattamente da narcisi deresponsabilizzati); se la prospettiva è quella dell’Alberto Sordi Tassinaro che chiede ad Andreotti la raccomandazione per il figlio, perché “tanto ne fa tante”; se la prospettiva è quella di chi avverte l’essere meridionale quasi quale handicap, o comunque legato ad etichette, cliché e prerogative da commedia all’italiana; se la prospettiva è lamentarsi di Roma ladrona, al pari dei nordisti che lo fanno da decadi; se ancora vogliamo considerarci colonia o peggio, come facciamo col turismo – dove anziché gestirlo, ci auto colonizziamo e svendiamo (argomento di un prossimo articolo). Insomma se queste sono le direzioni, il meridionalismo per il sottoscritto ha assai poco senso.
Se invece si ragiona di cambiamento di sguardo e prospettive, cambiamento di teste e idee, cambiamento di narrazione a proposito del Sud, ragionando in relazione al mondo e ai mondi, materiali e spirituali; se la prospettiva è conoscere e conoscersi, iniziare a ricordarsi chi si è (Ancora citando Tomasi de Lampedusa: “Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.”); se davvero si ha la voglia di apprenderle e metterle in pratica le buone creanze, pur continuando a portare il proprio discorso nel mondo – perché si è in effetti dei (gli dei non sono refrattari al cambiamento, sono il cambiamento, la zoè, la vita indistruttibile, immutabile principio d’impermanenza); se questa è la prospettiva il gioco sì che si fa interessante.
2.2 Lo specchio
In una frase: guardarsi allo specchio, per conoscersi di più (perché per agire bene bisogna conoscersi bene), e per usarebene potere e responsabilità (che dovrebbero andar sempre insieme) connessi con la posizione geografica.
Smetterla di esser adolescenti e farsi finalmente adulti. Ripartire da chi si è e da chi si vuol essere, questo il punto del discorso e la proposta di questo primo articolo. Anche quando si chiede, per chiedere nel giusto modo, sedersi al tavolo delle trattative nel giusto modo, bisogna sapere bene chi si è, e considerarsi nel giusto modo.
Adagio antico: se non rispetti te stesso, non saprai mai farti rispettare. (E il Sud da troppo tempo rispetta poco se stesso). Ricordarsi chi si è, è il primo step. Riprendendo in mano tutto il proprio passato e rielaborandolo, rinarrativizzandolo.
I meridionali devono comprendere chi sono, qual è la loro storia (senza storpiature, mitologemi neoborbonici che fanno fare solo figure ridicole e infantili dinanzi alla scienza e alle prove storiche), qual è la loro ricchezza culturale, filosofica, artistica, affinché possano esser orgogliosi e consapevoli di chi sono.
Solo chi sa chi è, chi sa narrarsi e presentarsi al mondo, (soprattutto in questo nuovo mondo in cui la violenza è continuamente ufficialmente estromessa, nei fatti continuamente veicolata in modo sempre più manipolatorio, subdolo, sottile e ipocrita – vedi le doppie misure nei conflitti israelo-palestinese, russo-ucraino), può vincere la battaglia culturale in atto.
Per dirla con Raimon Panikkar: “Le idee scrivono lo spartito della musica che i popoli e i governanti ballano”. Bisogna cangiar spartito delle idee, delle visioni dei meridionali, ad incominciare da come i meridionali vedono se stessi.
Bisogna scrivere nuove idee per ballare e far ballare una nuova musica, possibilmente di pace, a un Sud e un Mediterraneo forti, che sappiano dialogare di più e meglio con il fantastico vicino e lontano Oriente, e per far ragionare meglio gli amici (non padroni) atlantici e alleati anglosassoni.
I problemi del Sud sono i problemi del mondo e i problemi del mondo sono i problemi del Sud. Se vogliamo cangiare il Sud e il mondo però, bisogna esser capaci prima di ogni cosa di cambiare se stessi, individualmente e in quanto comunità.
Per fortuna questo sta già avvenendo, per motivi generazionali, per l’informatica e l’infosfera globale, per le movimentazioni dei giovani che studiano fuori e ritornano – tra cui il sottoscritto (non più giovane). Il Sud deve internazionalizzarsi prima mentalmente, conservando quel buono che ha, anche di antimoderno e anticapitalistico, ma sapendo parlare il linguaggio del mondo.
Il secondo step a fianco al primo è iniziare finalmente a formare classi dirigenti all’altezza del mondo che c’è e che viene, smettendo di sceglierne di sbagliate o facendosele imporre dall’alto. Da troppo tempo – da l’unità italiana a seguire, i meridionali subiscono perché spesso le classi dirigenti sono manchevoli, perché i meridionali svendono il proprio voto in maniera sciatta.
Se ne è già accennato e si approfondirà in altri articoli: l’autocolonizzazione e l’autoasservimento, che derivano da sudditanza morale, culturale e psicologica, sfociano nella passione a votare le persone più sbagliate.
Votare per anni grossi nomi di partiti che col Sud non hanno nulla a che fare (se non usare il porto di Gallipoli per mantenerci la barca), o peggio ancora votare e farsi votare per e con partiti nordisti (che per trent’anni hanno usato parole offensive nei confronti del Sud e dei sudisti, hanno fatto dell’antimeridionalismo e razzismo la bandiera), solamente perché il suddetto partito ha cangiato brand design proponendosi non in versione secessionista, ma nazionalistica: questo è da imbecilli assoluti. Non ha scusanti. Questa attitudine è parente stretta di quella delle comari che in certi quartieri popolari vendono il voto per pochi euro di spesa.
Questo è il Sud che va cangiato, ma lo si cangia solamente se si attua prima, in maniera diffusa e popolare, il primo step.
Quando saremo capaci di cangiare lo spartito, cangierà pure la musica, e di conseguenza il ballo. Gli altri e il resto del mondo con cui interagiamo balleranno appresso.Così le questioni più pratiche e contingenti (alta velocità, autonomia differenziata, trasferimenti alle regioni, ecc.) saranno una diretta e naturale conseguenza.
Shanti, shanti, shanti.