Articolo di Dario Spagnuolo 

1. Il dibattito sull’autonomia differenziata tocca inevitabilmente anche quello sulle istituzioni scolastiche autonome che, proprio quest’anno, celebrano i 25 anni dal DPR 275/1999, il “Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”.

Rispetto ai paesi europei, l’autonomia delle istituzioni scolastiche in Italia è giunta con un significativo ritardo ed era stata accompagnata, come sempre avvenuto nella storia scolastica del paese, da fortissime critiche provenienti dalla base. Esistevano fondati timori che l’autonomia aggravasse il divari territoriali e che ponesse fine al dirigismo, solo per avviare la transizione ad una scuola aziendalista. Ad avvalorare la tesi, la trasformazione dei “capi di istituto”, introdotti dai Decreti Delegati (i D.L. n. 416, 417, 418, 419 e 420 del 1974) che avevano sostituito i prèsidi e i direttori sostanzialmente privi di poteri, in “dirigenti scolastici” etichettati, non senza ragioni, come manager.

In realtà, nelle intenzioni l’autonomia delle istituzioni scolastiche assegnava maggiori poteri alle scuole, chiamate ad elaborare la propria offerta formativa in risposta ai bisogni e alle vocazioni dei diversi territori. Iniziava così il tramonto dei programmi ministeriali, sostituiti definitivamente nel 2004 dalle programmazioni, ovvero da percorsi di studio individualizzati e personalizzati elaborati dai consigli di classe e dal Collegio dei docenti.

Nelle intenzioni, l’autonomia delle istituzioni scolastiche attribuiva a ogni scuola gli stessi poteri, cercando persino di effettuare un’opera di perequazione con l’attribuzione dei fondi della L. 440/1997 per l’attuazione dell’autonomia. In realtà, tali fondi sono andati diminuendo progressivamente e la dotazione perequativa, determinata in relazione alle condizioni demografiche, orografiche, economiche e socio-culturali del territorio, si è ridotta a zero. L’autonomia è così rimasta senza risorse, e la promessa di portare le scuole del Sud allo stesso livello di quelle del Nord si è subito infranta sullo scoglio della spesa storica, mirabilmente spiegata nel volume “Zero al Sud” del giornalista napoletano Marco Esposito.

Le istituzioni scolastiche si sono così trovate ad essere le più piccole autonomie dello Stato, e come tali oberate da un’infinità di incombenze amministrative, senza tuttavia disporre né di risorse finanziarie, né di una dotazione organica adeguate. Ogni istituzione scolastica autonoma, infatti, si trova a gestire mediamente 5 o 6 plessi, oltre mille alunni e più di 100 docenti, con un solo dirigente e qualche addetto di segreteria. Di fatto, la scuola è anche l’unica istituzione dello Stato ad intrattenere un rapporto quotidiano e duraturo con i cittadini, finendo così per catalizzare la rabbia e l’insoddisfazione di chi, presso altre istituzioni (uffici municipali, ambulatori, uffici INPS ecc.) trova al più un’interlocuzione episodica.

La debolezza delle istituzioni scolastiche autonome, ancora oggi, le espone alle incursioni degli enti locali e persino degli altri Ministeri, che cercano di piegarle (spesso con successo) ai propri scopi. Gli esempi sono molteplici, ma per comprendere meglio è bene precisare che le scuole godono di un’autonomia didattica, organizzativa e amministrativa. Un numero di campi, insomma, decisamente ridotto rispetto alle competenze scaricate sulle scuole, ad esempio, durante la pandemia.

2.  E’ significativo che, nello stesso periodo in cui nascevano le istituzioni scolastiche, si sia andata definendo la riforma del Titolo V della Costituzione.

La Legge costituzionale n. 3/2001 giunge al termine di un complesso lavoro di una commissione bicamerale, in uno dei momenti storici in cui la Lega, all’epoca Lega Nord/Liga Veneta, propone una vera e propria secessione.

Il caso italiano è unico nel panorama degli Stati federali. Il federalismo, infatti, è una forma organizzativa tipica di stati di dimensioni medie o grandi, che trova fondamento in una storia che vede già delle entità statali o assimilabili preesistenti. E’ il caso della Germania, degli Usa, dell’India e così via.

In Italia, questa storia manca. Prima dell’unità il paese è frammentato: al Sud c’è il Regno delle due Sicilie, soggetto a spinte centrifughe. Al centro e a settentrione, la situazione è molto più complessa con il Regno di Sardegna, il Lombardo Veneto, i Ducati di Modena e Parma, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Al Nord, inoltre, le città hanno potere politico e economico. E’ l’Italia delle cento città, come  affermava Carlo Cattaneo, mentre al Sud il divario tra la capitale e i latifondi è enorme.

E’ per tale ragione che, nel tentativo di dare fondamento storico al progetto leghista,  si assiste ad una rivisitazione storica. Per la prima volta si afferma l’esistenza della Padania, un’entità geografica priva di legittimazione storica e giuridica, e si rievocano figure, come Alberto da Giussano, appartenenti più alla leggenda che alla storia.

Tale operazione, per avere successo, prende di mira anche le scuole. Esponenti politici chiedono che si insegnino i dialetti e le parlate locali, anche quando queste sono prive di una tradizione letteraria e culturale tale da elevarle al rango di lingue. E’ pressante soprattutto la richiesta che si insegni la storia locale.

In realtà, se la Padania è un costrutto politico, le regioni sono una ripartizione statistica. Nascono, infatti, all’indomani dell’unità d’Italia quando Pietro Maestri fonda l’annuario statistico italiano dividendo il Regno in compartimenti che, nel 1912, prenderanno il nome di regioni. Quale dovrebbe essere, dunque, la storia da insegnare?

La riforma del Titolo V della Costituzione sembra più una questione amministrativa e politica che un effettivo riconoscimento di identità locali.

E’ evidente che il disegno di legge leghista attenti alla neonata autonomia didattica delle scuole, cercando di imporre i contenuti dell’offerta formativa e sottraendoli alla competenza dei singoli istituti.

E’ per tale motivo, che il testo conclusivo licenziato dal Parlamento, affida allo Stato la definizione delle “norme generali sull’istruzione” (art. 117 -n Cost.), mentre in materia di legislazione concorrente precisa: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: […] istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”.

L’attuale Legge sull’autonomia differenziata, dunque, di fatto finirebbe per privare le istituzioni scolastiche degli attuali margini di autonomia, portandole ad una dipendenza dagli enti locali: le Regioni per le scuole secondarie di II grado e i Comuni per quelle del I ciclo. In conclusione, l’autonomia delle istituzioni scolastiche resta un’occasione mancata, in virtù di un investimento sull’istruzione pubblica da sempre inferiore a quello dei principali paesi OCSE.

3. In conclusione, prima ancora dell’autonomia differenziata, le risorse per l’istruzione nel Mezzogiorno sono già state tagliate attraverso il Decreto Ministeriale n. 127/2023. Con tale provvedimento, il numero di istituzioni scolastiche autonome autorizzabile in ogni regione è pari al quoziente tra il numero di alunni totale diviso 961. Tenuto conto che, precedentemente, erano necessari 600 iscritti perché la scuola fosse autonoma, cioè le fosse assegnato un dirigente scolastico ed una segreteria, è evidente che il salto è enorme. Adottando tale parametro, infatti, il numero di scuole autonome sarà di molto inferiore a quello dei Comuni italiani. Si tratta di un danno enorme per le aree interne del paese. Infatti, considerato che nelle grandi città ci saranno necessariamente diverse decine di istituzioni scolastiche autonome, nella aree interne come quelle montane sarà possibile crearne solo una ogni dieci o quindici Comuni. Per iscrivere i figli o recarsi ai colloqui con i docenti, insomma, le famiglie dovranno spostarsi di parecchi chilometri.

L’iniziativa del Governo, almeno in apparenza, sembra ledere il principio di uguaglianza sostanziale sancito dal c. 2 dell’art. 3 della Costituzione. A essere maggiormente penalizzate saranno  le regioni del Mezzogiorno.

L’applicazione indiscriminata dello stesso parametro per tutte le regioni, infatti, non tiene in considerazione i divari territoriali. Mentre al Nord in regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna il territorio pianeggiante rappresenta circa il 50% della superficie regionale, in Campania si scende ad appena il 15% e in Calabria addirittura al 9%. Vaste aree di pianura significano collegamenti comodi e veloci, al contrario nelle zone montuose i trasporti diventano difficili e persino proibitivi in inverno e richiedono tempi lunghi. Inoltre, data l’assenza di linea ferrate e la scarsa redditività delle ditte di trasporto collettivo pubbliche e private, diviene necessario disporre di un veicolo autonomo.

Il provvedimento, così, oltre a rivelarsi discriminatorio per le regioni meridionali, rischia di accelerare i processi di spopolamento delle aree interne. Lo ha raccontato efficacemente Riccardo Milani nel film “Un mondo a parte”, in cui l’intera vicenda ruota intorno ad un plesso distaccato di un paesino, continuamente minacciato di chiusura dall’amministrazione scolastica, con il rischio che l’intero paese: “faccia la fine di Sperone” un borgo fantasma che è possibile trovare lungo la strada statale marsicana, a 1.170 metri di altitudine.

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