Saggio breve di Salvatore Lucchese

Riassunto

Analizzata criticamente dal punto di vista giuridico-economico e storico-politico, l’attuale proposta di autonomia regionale differenziata, di solito, viene ricondotta all’ascesa della Lega Nord. L’adozione di un punto di vista storico-culturale, invece, consente di coglierne le radici più profonde nella costruzione degli atavici pregiudizi antimeridionali, di cui il regionalismo differenziato diviene una forma di cristallizzazione discriminatoria sul piano istituzionale. Ne segue l’evidenziazione dei limiti della moral suasion su cui si è basato il meridionalismo, a fronte della rappresentanza politica data dalla Lega Nord alla cosiddetta questione settentrionale. Limiti evidenziati in modo paradigmatico dalle dichiarazioni di Pasquale Villari circa il fallimento dell’impegno da lui profuso in favore del riscatto del Sud, che, ancora oggi, rimane sostanzialmente senza voce.  

Parole chiave: questione meridionale, questione settentrionale, meridionalismo, Lega Nord, regionalismo discriminatorio.

1. Leghismi/o e questione settentrionale vs meridionalismo, moral suasion e questione meridionale

A centosessantatrè anni dalla proclamazione della sua nascita (17 marzo 1861), l’Italia, a seguito dell’approvazione della legge 86/2024 a firma Calderoli, legge meglio conosciuta nella vulgata mediatico-politica come “Spacca-Italia” (Pappalardo, 2022: 3), rischia di diventare di nuovo una mera “espressione geografica” (Fassina, 2024: 20).

Infatti, la devoluzione di maggiori poteri, funzioni e risorse relative a ben 23 materie, tra cui anche la scuola, i trasporti, la ricerca e le infrastrutture nazionali (Costituzione: Titolo V), alle Regioni richiedenti, ad oggi Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria, non solo frantumerebbe irrimediabilmente, attraverso quella che è stata anche definita come la “secessione dei ricchi” (cfr. Viesti, 2019; Viesti 2023; Pallante 2024), l’unità giuridico-politica dello Stato italiano, riducendolo ad un “paese arlecchino” (Viesti, 2923: 10) con la conseguente istituzionalizzazione delle “Regioni-Stato” (Ibidem), ma statuirebbe anche definitivamente l’annosa spaccatura tra l’Italia del Nord e l’Italia del Sud, la cui condizione di colonia estrattiva interna di risorse economiche (cfr. Busetta, 2018; Busetta 2021) e soprattutto umane (cfr. Esposito, 2024) diverrebbe definitiva, permanente e strutturale con la conseguente cristallizzazione dei divari di cittadinanza tra le due aree (cfr. Bianchi & Fraschilla, 2020; Esposito, 2018). 

In questo modo, si raccoglierebbero i frutti apparentemente suadenti, ma, in realtà, amari e velenosissimi della centralità della cosiddetta questione settentrionale, che, agitata dalle Leghe prima e dalla Lega Nord poi (Petraccone, 1995: 296-301; 308-316), ha egemonizzato, in modo trasversale rispetto agli schieramenti politici sia di centro-sinistra che di centro-destra, gli ultimi quarant’anni del dibattito politico nazionale, con la conseguente rimozione della questione meridionale dall’agenda di tutti i governi sedicenti nazionali. Date storiche periodizzanti? La soppressione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1984 e la cancellazione di ogni riferimento esplicito allo stesso Mezzogiorno nel dettato costituzionale in occasione della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione varata a colpi di maggioranza dall’allora Governo di centro-sinistra presieduto da Giuliano Amato (Villone, 2019: 23-27).  

Ora l’eventuale attuazione dell’autonomia regionale differenziata, ossia l’attuazione di una singolare forma di federalismo estrattivo e discriminatorio, già teorizzata a cavallo tra Otto e Novecento dal lombrosiano Alfredo Niceforo (cfr. Niceforo, 1898; Niceforo, 1901), comporterebbe la definitiva cristallizzazione sul piano istituzionale del plurisecolare pregiudizio antimeridionale di un Sud abitato da una “razza maledetta” (cfr. Teti, 1993; 2013) dedita esclusivamente all’ozio e alla delinquenza, di un Mezzogiorno da sempre “palla al piede” (cfr. De Francesco, 2012) del Paese, e “parte cattiva dell’Italia” (cfr. Cremonesini & Cristante, 2015) che vive sulle spalle di un Nord virtuoso e laborioso, quando è “l’esatto opposto” (cfr. Napoletano, 2020). Pregiudizi e stereotipi che, costruiti anche sulla base di un immaginario coloniale (cfr. Conelli, 2022), sono stati fermamente criticati e smentiti da tutti quegli intellettuali e da tutti quei politici che, a vario titolo, nel corso della storia italiana hanno proposto varie soluzione per l’unificazione sostanziale e non solo formale delle due Italie. Il riferimento è al meridionalismo classico, inteso come variegato ed articolato movimento politico-culturale – dai liberali moderati alla Pasquale Villari, ai socialisti e ai comunisti alla Gaetano Salvemini e alla Antonio Gramsci, passando per i democratici radicali alla Napoleone Colajanni e alla Guido Dorso, per giungere sino all’attuale Società per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno (Svimez) –, che, come movimento di analisi e di opinione trasversale ai diversi schieramenti ed alle diverse culture politiche nazionali, ha elaborato analisi storico-critiche ed inchieste sociali ed economiche e soprattutto ha proposto soluzioni politiche per la questione meridionale, costruita ed agitata come questione sociale, economica, morale e civile di carattere nazionale sia per la sua genesi che per le sue implicazioni e conseguenze.

Mentre il meridionalismo classico si è caratterizzato ed ancora oggi si caratterizza, si veda l’opera meritoria della Svimez di precise analisi socio-economiche e di moral suasion, come variegato movimento di politico-culturale che assolve al compito precipuamente pedagogico di formare l’opinione pubblica e le classi dirigenti nazionali per indurle  a provvedere all’unificazione del Paese non solo dal punto di vista sociale ed economico, ma anche dal punto di vista civile, il leghismo settentrionale, invece, si è strutturato e tuttora si struttura come una vera e propria forza politica che ha posto la questione settentrionale al centro del dibattito politico italiano, contribuendo pesantemente alla deformazione dello spirito unitario del Paese, con la conseguente ri-nascita, come reazione, (Esposito, 2020: 207-280), di, pero ora, velleitarie e più o meno nostalgiche derive identitariste e localistiche anche nel Sud Italia (Villone, 2019: 89).

Dunque, il meridionalismo sì profeta dall’elevato e rigoroso spessore scientifico e dall’alto profilo etico-politico e pedagogico-civile (cfr. Sirignano & Lucchese, 2012; Corbi et al., 2022) – la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e la formazione delle classi dirigenti tese al perseguimento del bene comune –, ma anche profeta disarmato privo di una strutturazione politica organica, a fronte, invece, sì della rozzezza culturale della Lega, che ha ripreso, alimentato e diffuso atavici pregiudizi antimeridionali, ma anche della sua forza politica organizzata. Se ad oggi si è giunti sull’orlo del baratro, il pericolo, se l’egoismo dei ricchi dovesse essere elevato a diritto, di una definitiva frantumazione dell’intero sistema-Paese (Villone, 2025; Laccetti, 2025) e della sua possibile “balcanizzazione” (Cuccurese, 2021: 125), occorre riflettere anche sui limiti precipuamente politici del meridionalismo classico, senza, tuttavia, cadere nelle pericolose derive di carattere localistico e territoriale. Da questo punto di vista, il profondo scetticismo sulla valenza precipuamente politica dell’impegno civile a favore del Mezzogiorno manifestato quasi al termine della sua vita da parte di quello che viene considerato in modo unanime il padre del meridionalismo classico (cfr. Petraccone, 2005: 13-14), Pasquale Villari, potrebbe essere considerate come paradigmatico dei punti di forza e dei limiti di una nobile tradizione di pensiero, che, sin dalle sue origini, ha contribuito allo svecchiamento ed al conseguente rinnovamento dei modelli culturali italiani con l’intento di porre un rimedio definitivo allo stoico dualismo Nord-Sud, senza, tuttavia, mai riuscirci appieno.   

  

2. Meridionalismo, fallimento della moral suasion e vuoto di rappresentanza dei vinti del Sud

Nello stessi anni in cui l’autore delle novelle Nedda (1874) e Rosso Malpelo (1880), Giovanni Verga, dà inizio al suo ciclo dei vinti con la pubblicazione del romanzo I Malavoglia (1881), lo storico e politico napoletano Pasquale Villari pubblica la prima edizione de Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia (1878), in cui raccoglie i suoi articoli dedicati al Mezzogiorno e da lui pubblicati dal 1866 al 1878 su quotidiani e riviste di area prevalentemente conservatrice – Perseveranza, Politecnico, Nuova Antologia, Rassegna settimanale – per denunciare le misere condizioni di vita e di lavoro delle plebi urbane napoletane e delle masse rurali meridionali, in modo tale da indurre la classe dirigente nazionale a provi rimedio mediante riforme sociali calate dall’alto.

Povertà, sfruttamento e precarie condizioni sociali, che, ben esemplificate dallo stesso Villari nella descrizione dei contadini merdionali (Villari, 1978: 70-71), rappresentano per il liberale napoletano le cause ultime anche delle forme criminali – brigantaggio, camorra, mafia – con cui si manifesta la questione meridionale in quanto questione sociale. Forme che, invece, sin dal manifestarsi della “guerra” o “ribellismo” contadini (Di Brango & Romano, 2017; Romano 2024) subito dopo l’unità, non a caso etichettato come mero fenomeno criminale, il brigantaggio, sono rappresentate in modo del tutto separato rispetto alla questione sociale, contribuendo, così, alla costruzione di un immaginario coloniale teso all’educazione all’inferiorità ed alla subordinazione incentrato sulla figura antropologico-razziale del “delinquente nato” (Lombroso, 1876).

Sono gli anni in cui la paura per la Comune di Parigi prima (1871) ed il subentrare della Sinistra storica alla Destra storica alla guida dell’Italia, inducono i liberali conservatori illuminati alla Pasquale Villari, alla Sidney Sonnino, alla Leopoldo Franchetti e alla Giustino Fortunato ad analizzare criticamente la questione sociale in Italia proprio a partire dalle regioni meridionali, per poi proporre prevalentemente riforme sociali ed economiche, che hanno sì per oggetto i vinti, ossia le plebi urbane, i braccianti ed i carusi delle solfatare meridionali, ma li disconoscono come soggetto attivo del proprio processo di emancipazione e di conseguente riscatto dell’intero Meridione.

Non è una caso che lo stesso conservatore Verga collabori con la rivista Rassegna settimanale fondata proprio da Sonnino e Franchetti con l’intento pedagogico-civile d’indurre la borghesia nazionale a porre le basi del suo potere non più sul dominio, ma sull’egemonia, da realizzare tramite riforme calate dall’alto, che, con lo scopo ultimo di prevenire la radicalizzazione delle lotte sociali, mitigassero le brutali condizioni di povertà e sfruttamento in cui versano le masse popolari, in primis i vinti del Sud Italia, da un processo di unificazione nazionale che ha perpetuato le varie forme di dominio allora vigenti, promuovendo gli interessi dei ricchi a discapito dei poveri, dei maschi a discapito delle donne e dei settentrionali a discapito dei meridionali

In sostanza, si tratta di posizioni afferenti al riformismo borghese illuminato, che, se hanno il merito di porre la questione meridionale come questione sociale di portata nazionale sia per le sue cause che per le sue conseguenze, si avviluppano nella contraddizione del “mito del buongoverno” (cfr. Salvadori, 1981), in quanto mirano all’educazione etico-politico-culturale di quelle classi dirigenti, che, invece, sono l’espressione organica delle classi sociali allora dominanti, il blocco agrario-industriale di cui parleranno successivamente il socialista Gaetano Salvemini (cfr. Salvemini, 1955) e il comunista Antonio Gramsci (cfr. Gramsci, 1970). Blocco conservatore che, a sua volta, trae vantaggi sia dallo sfruttamento, anche se in diverse forme, delle masse popolari ed operaie settentrionali sia dallo sfruttamento delle masse rurali meridionali.

E l’avere considerato le classi rurali del Mezzogiorno soltanto come l’oggetto di accurate inchieste sociali, per poi incentrare l’attenzione esclusivamente sul cosa fare per risolvere l’allora nascente questione meridionale, e non sul chi deve fare cosa, se non genericamente appellarsi alle virtù ‘taumaturgiche’ dello Stato borghese, è la radice ultima della sconfitta politica del meridionalismo d’indirizzo liberale, anche esso tra i vinti nell’agone della lotta politica italiana a cavallo tra Otto e Novecento.  

D’altronde, proprio lo stesso Villari dimostra di essere cosciente di questo fatale errore d’impostazione in una lettera da lui stesso inviata al direttore del Corriere della Sera il 4 settembre 1905

Non le nascondo, – scrive Villari – che, sulla questione meridionale, io sono diventato assai sfiduciato e scettico. Ne scrissi fin dal 1860 nella ‘Perseveranza’, continuai colle Lettere meridionali nell’‘Opinione’, con molti articoli nella ‘Rassegna settimanale’, con un gran numero di opuscoli e discorsi. A che valse? A nulla addirittura. Questo sarà stato, è vero, conseguenza del poco valore dei miei scritti. Ma sulla stessa questione c’è una serie assai grande di opuscoli, discorsi, volumi, non pochi dei quali, dopo lungo studio e serie indagini, dettati da uomini autorevolissimi. Basta ricordare i nomi di Franchetti, Sonnino, Turiello, Colajanni, Rudinì, Fortunato e moltissimi altri. Ma quello che è più, sulla stessa questione, che è in sostanza una questione agraria, v’è stata la grande inchiesta parlamentare, che raccolse una vasto e prezioso materiale. A che cosa ha giovato tutto ciò? Altrove una grande inchiesta serve ad apparecchiare una grande riforma. Quale è la riforma agraria fatta da noi dopo l’inchiesta? Se qualche proposta fu presentata non ebbe neppur l’onore di una seria discussione in Parlamento” (Villari, 1905: 181-182).

Tale confessione amara e disillusa può essere considerata una testimonianza di alto valore culturale circa la vacuità dell’impostazione delle lotte politiche esclusivamente su quella che oggi potremmo definire la moral suasion, quando quest’ultima non sia fondata su una forza sociale, culturale e politica in movimento ed agguerrita. Infatti, sebbene negli ultimi mesi nei confronti dell’attuazione del regionalismo discriminatorio ai danni del Sud, e non solo del Sud (cfr. Fassina, 2024), sia nata una vasta coalizione contro, che coinvolge, soprattutto, i partiti di centro-sinistra e le principali forze sindacali del Paese, ancora oggi, a partire dalle sue classi sociali più deboli e marginali – disoccupati, inoccupati, lavoratori precari e a nero, giovani e donne – il Sud è privo di un’adeguata rappresentanza politica, che rilanci, in un’ottica euro-mediterranea, la valenza della questione meridionale non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo.

È il tema della costruzione di una soggettività politica che abbia un chiaro, netto ed inequivocabile radicamento sociale. Tema che, già introdotto dalla rivoluzione copernicana che Salvemini apporta a cavallo tra Otto e Novecento al dibattito meridionalista (Salvemini, 1955: 33-54), il passaggio dal cosa fare per il riscatto del Sud al chi deve fare cosa per il suo riscatto e la sua emancipazione, è stato posto dall’economista meridionalista Pietro Massimo Busetta, che di recente ha osservato:

Serve una forza post ideologica che in una visione di bene comune laica, ma con l’obiettivo di aiuto ai più deboli e ai più emarginati, e nell’utilizzo di tutte le opportunità che il Paese dispone, riesca a mettere insieme la forze sane che ancora rappresentano la maggioranza e che possano riuscire al cambio a 180° dei paradigmi prevalenti. Sul piatto vanno messe tutte le fiches possedute perché se si perde è l’unità del Paese che viene messa in discussione (Busetta, 2023: 172).      

Bibliografia

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