Saggio breve di Antonio Salvati
1. L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere, avvertiva Ryszard Kapuściński, reporter morto nel 2007. Il continente africano è «un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste»(Kapuściński R, 2010: p. 7). L’Africa è il continente più antico, quello in cui ha avuto origine la vita dell’uomo (tra la vastissima bibliografia sulla storia dell’Africa si segnala Ki-Zerbo J., 1977).
L’africano è il primo uomo a comparire sulla terra, grazie a un ambiente e a un clima favorevoli, contribuendo a creare quella sua particolare recettività e capacità a interagire con l’ambiente. La storia dell’Africa è materia troppo spesso trascurata. A torto, l’Africa è un continente a lungo considerato senza storia. Il nigeriano Wole Soyinka nel 1986, quando ricevette il Nobel per la Letteratura, rammentò come tanti pensatori occidentali hanno considerato l’Africa alla periferia della storia.
Gravi problemi investono ancora oggi l’Africa. Innanzitutto, quelli relativi ai conflitti etnici e alle guerre. In Africa dominano regimi autoritari e la democrazia fallisce, crescono flussi incontrollati e rinascono vecchi conflitti.C’è, infine, l’importante capitolo delle migrazioni. La vita del giovane africano urbanizzato è condizionata dalla fragilità della famiglia e dalla fine dei sistemi tradizionali di protezione, dalla mancanza di lavoro, dal rischio di ammalarsi, dal desiderio di emigrare e dal dispotismo delle istituzioni. La stragrande maggioranza è convinta che emigrare per assicurarsi un futuro migliore sia un diritto inalienabile.
2. Nonostante il presente non possa che apparire nella sua drammaticità, l’Africa non è soltanto sinonimo di miseria e arretratezza. Oggi l’Africa è cambiata, è diventata la terra delle mille opportunità.Inoltre, l’Africa non è una nazione. Frequentemente la trattiamo – avverte Federico Rampini – come fosse un blocco unico, «con generalizzazioni e stereotipi che sorvolano su differenze enormi (al massimo distinguiamo tra le due Afriche a nord e sud del Sahara, come se questa linea di demarcazione fosse l’unica che conta)». Ad esempio in fatto di natalità e crescita degli abitanti le tendenze sono già ben differenziate. All’estremo nord e all’estremo sud «alcuni paesi sono entrati da tempo in una curva demografica nuova. Fanno meno figli e l’incremento demografico rallenta. L’intero Maghreb e il Sudafrica sono entrati per primi in quella fascia di paesi emergenti dove il comportamento riproduttivo si modernizza rapidamente» (Rampini F., 2023).
Considerando l’applicazione della pena di morte nel continente africano il panorama è di certo più confortante rispetto a quello asiatico. L’Africa ha dato e sta dando un contributo notevole al percorso abolizionista e va configurandosi come il secondo continente, dopo l’Europa, sulla strada dell’abolizione della pena capitale. Il senso di questo contributo è anche dar conto dell’impegno contro la pena di morte e nella campagna mondiale per la moratoria della Comunità di Sant’Egidio. È convinzione comune a Sant’Egidio che l’Africa è decisiva in questa battaglia di civiltà e di umanità per i contenuti dell’umanesimo africano espressi lungo tutta la sua storia, così importanti per la cultura mondiale. La pena di morte, almeno quella giuridica e legalizzata, non fa parte della tradizione africana. Nel periodo precoloniale le sentenze capitali erano una rarità: agli sconfitti o ai criminali si comminavano principalmente sentenze di esilio e i condannati venivano banditi dalla comunità o ridotti in schiavitù. L’introduzione della pena di morte per via legale entra nel corpus giuridico africano attraverso l’islamizzazione prima e la colonizzazione europea poi. (Salvati A, 2019 e 2007).
Le recenti positive evoluzioni in questa battaglia, la riduzione reale dell’applicazione della pena capitale nel continente africano, la coraggiosa scelta di alcuni governi africani (anche di Paesi a maggioranza musulmana) per la sua totale abolizione, mostrano qual è l’apporto che l’Africa può dare in termini di civiltà al nostro tempo.
La lotta alla pena di morte è diventato un elemento importante nell’ambito delle relazioni internazionali, come hanno ben compreso molti Paesi africani. Il 6 settembre 2004 nella conferenza inaugurale dell’incontro tenutosi a Milano Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, il presidente del Senegal Abdoulaye Wade ha ricordato tra i segnali incoraggianti nell’evoluzione delle relazioni internazionali, la tendenza verso l’abolizione della pena capitale. Con la votazione del 10 dicembre 2004 da parte del Parlamento, il Senegal ha abolito la pena capitale
In larga parte del mondo questa lotta – ha sottolineato Mario Marazziti – è associata alla ricerca di una vera giustizia, non vendicativa ma sempre riabilitativa. Aspira inoltre a un più alto livello di civiltà e di difesa dei diritti umani di tutti, vittime e colpevoli dei crimini. In tante parti del mondo, così come nella coscienza di una moltitudine di persone, la pena di morte viene sempre più avvertita come una violazione irrimediabile della sacralità della vita e della dignità umana, che impoverisce e non difende le società che la applicano. La battaglia contro la pena di morte è, dunque, un modo per gli Stati e la società per difendersi dal rischio di abbassarsi allo stesso livello di coloro che hanno commesso gravi crimini contro la persona(Marazziti M., “Diplomazia umanitaria contro la pena di morte”, in Morozzo Della Rocca R., (a cura di), Fare pace. La diplomazia di Sant’Egidio, Alba, Edizioni San Paolo, 2018).
Con la partecipazione attiva a una campagna “globale” come quella per una moratoria universale della pena di morte, l’Africa può dimostrare di non volere essere più terra di colpi di Stato, di esecuzioni sommarie e capitali; anzi, di essere capace di lanciare al mondo segnali di nonviolenza e di speranza.Non solo per l’Africa, ma per tutto il mondo.
3. Nel continente africano è molto forte l’idea che la giustizia sia chiamata a ristabilire rapporti e sia un fatto sociale. Nella democrazia è centrale il reciproco riconoscimento degli individui e l’applicazione della pena di morte nega l’elemento fondamentale del riconoscimento degli esseri umani e, dunque, esprime più che radicalmente un male: io nego l’altro, io nego la relazione. Tante volte nella storia, specialmente quella europea del XX secolo, si è immaginato il male come uno strumento per rigenerare la società attraverso la guerra, la pulizia etnica, i campi di concentramento. Con il male non è possibile costruire nulla di buono. L’umanità – osserva Luciano Eusebi – non sembra in grado di poter sopravvivere a lungo secondo le dinamiche di giustizia del passato. Essa dispone da molti decenni di strumenti bellici idonei a debellarla ed è ormai così caratterizzata da una trama di rapporti così complessi da risultare ingovernabile secondo gli strumenti tradizionali. Il superamento generalizzato della pena di morte, in questa prospettiva, segnala la volontà di porre al centro dei rapporti giuridici, ma anche dei rapporti internazionali, un modello della giustizia più adatto ai nostri tempi(Eusebi L., Motivazioni politico-criminali della rinuncia alla pena di morte, 2009.
4. Nel 1989, quando Amnesty International cominciò a censire i dati statistici sulla situazione globale della pena di morte, registrò come l’unico Paese africano ad aver abolito formalmente la pena di morte fosse l’ex colonia portoghese del Capo Verde, con una legge approvata nel 1981. Oltretrent’anni dopo, la situazione è cambiata in misura significativa. A partire dal 1989 oltre venti Stati africani hanno abolito per legge la pena di morte e altri possono essere aggiunti all’elenco degli abolizionisti di fatto. Negli ultimi anni, dopo il Togo e il Burundi nel 2009, il Gabon nel 2010, il Madagascar nel 2014, la Repubblica del Congo nel 2015, il Benin nel 2016, la Guinea Conakry nel 2017, il Burkina Faso nel 2018, il Ciad nel 2020, la Sierra Leone nel 2021.Nel 2022 la Repubblica Centroafricana, la Guinea Equatoriale elo Zambia sono stati gli ultimi Paesi africani ad aver abolito la pena di morte. Ad essi si è aggiunto il Ghana dove il 25 luglio 2023 il parlamento ha votato per l’abolizione della pena di morte, rendendo il paese l’ultima di numerose nazioni africane che si sono mosse per abrogare la pena capitale negli ultimi anni. Nessuno è stato giustiziato in Ghana dal 1993. Il Ghana ha attualmente 170 uomini e sei donne detenuti nel braccio della morte, le cui condanne saranno ora commutate in ergastolo. La nuova normativa modificherà la legge statale sui reati penali (Criminal and OtherOffences Act) e quella sulle forze armate (ArmedForces Act), sostituendo la pena di morte con l’ergastolo. In realtà da 30 anni in Ghana non si registrano esecuzioni, l’ultima ha riguardato 12 prigionieri fucilati perché condannati per rapina e omicidio. In realtà, da 30 anni in Ghana non si registrano esecuzioni, l’ultima ha riguardato 12 prigionieri fucilati perché condannati per rapina e omicidio.
Il Gabon è tra i Paesi che hanno lavorato con più decisione per tradurre in pratica i risultati del Secondo Colloquio Africa for Life, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e tenutosi a Roma il 18 giugno 2007. Gli impegni presi in tale occasione dall’allora ministro della giustizia Martin Mabala si traducono in atti legislativi e l’abolizione arriva prima del previsto, anche per l’intervento del Capo dello Stato Omar Bongo Ondimba, che ringrazia ufficialmente Sant’Egidio per l’impegno nel Paese e il lavoro che ha incoraggiato l’abolizione della pena capitale(Marazziti M., 2009: 49). La legge di abolizione è stata promulgata dal Capo dello Stato il 15 febbraio 2010.
Oggi tra Paesi abolizionisti de jure e quelli abolizionisti de facto arriviamo a contarne oltre quaranta paesi. Allo scopo di descrivere la situazione attuale è più facile elencare la minoranza di Stati africani che mantengono la pena capitale e, tra parentesi la data dell’ultima esecuzione capitale: Botswana (2021), Egitto (2023), Nigeria (2016), Somalia (2024), Somaliland (2023), Sudan (2021), Sudan del Sud (2022Di questi Stati non abolizionisti solo una manciata applica regolarmente la pena di morte.Nei Paesi dove continuano a essere emesse condanne a morte, le commutazioni e le concessioni della grazia diventano sempre più frequenti. In Kenya, in quella che è stata definita la più grande commutazione di massa, il governo il 3 agosto 2009 ha annunciato che più di 4.000 condannati a morte avrebbero visto, attraverso un decreto del Presidente della RepubblicaMwaiKibakii, la loro sentenza commutata in ergastolo. Il Kenya non esegue condanne a morte dal 1987. Negli ultimi anni si sono avute diverse commutazioni, annullamenti di sentenze capitali e concessioni di grazia nei seguenti Paesi: Algeria, Benin, Camerun, Egitto, Etiopia, Gambia, Ghana, Kenia, Libia, Malawi, Mali, Marocco, Niger, Nigeria, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Sierra Leone, Somaliland, Sudan, Sud Sudan, Swaziland, Tanzania, Tunisia, Uganda, Zambia, Zimbabwe.Aumenti delle esecuzioni nel 2023 sono stati registrati in Somalia (da 6+ nel 2022 a 38+ nel 2023, una cifra sei volte superiore). Non risultano nel 2023 esecuzioni in Sudan del Sud, paese che aveva invece eseguito condanne a morte nel 2022. In quattro nazioni –Comore, Sudan, Sudan del Sud e Zambia – non sono state emesse condanne a morte nel 2023, a differenza di quanto avvenuto nel 2022. Allo stesso tempo, in altri tre paesi –Camerun, Marocco/Sahara occidentale e Zimbabwe – sono state registrate condanne a morte nel 2023, dopo un periodo di interruzione. Amnesty International ha registrato un significativo aumento del numero di condanne a morte Egitto (da 538 a 590), Kenya (da 79 a 131), Nigeria (da 77+ a 246+), Somalia (da 10+ a 31+).
5. La maggior parte degli Stati ritiene la pena di morte una violazione irrimediabile della sacralità della vita e della dignità umana, che impoverisce e non difende le società che la applicano: è quanto recita la prima e storica Risoluzione approvata alle Nazioni Unite nel 2007, che fissa l’abolizione della pena capitale come un nuovo standard del rispetto dei diritti umani nel mondo. Non a caso ai Paesi africani mantenitori viene frequentemente raccomandata l’abolizione della pena capitale, attraverso l’Esame periodico universale, creato nel 2006 dalle Nazioni Unite, uno dei principali strumenti del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite che permette di stilare un bilancio della situazione dei diritti umani in tutti i Paesi membri dell’Onu.Secondo un calendario fisso e prevedibile, ogni quattro anni e mezzo tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite vengono sottoposti a un Epu (in inglese Universal Periodic Review). In questo contesto gli Stati membri analizzano la situazione dei diritti umani all’interno di uno specifico Paese membro proponendogli raccomandazioni concrete. L’esame si basa sul rapporto presentato dallo Stato interessato, sulle informazioni raccolte dall’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani e sui dati forniti dalla società civile. L’Upr – un meccanismo unico nel suo genere, creato nel 2006 dalle Nazioni Unite – consiste in un controllo che avviene sotto forma di un dialogo, durante il quale gli Stati membri rivolgono raccomandazioni al Paese controllato che, a sua volta, può commentare, accettare o rifiutare tali raccomandazioni. Spetta allo Stato controllato attuare concretamente a livello nazionale le raccomandazioni accolte. Le organizzazioni internazionali e non governative accreditate presso l’Onu possono essere presenti durante l’esame.
Il diritto internazionale relativo alla tutela dei diritti umani, inoltre, ha anche un’importante dimensione regionale e le istituzioni africane hanno avuto un ruolo specifico in questo processo (ZappalàS., 2011: 74-108). La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, approvata nel 1981 dall’Organizzazione dell’unità africana, non menziona la pena di morte, a differenza delle convenzioni regionali dei Paesi europei e americani. Tuttavia, l’articolo 4 della Carta dichiara: «La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto della sua vita e all’integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno può essere arbitrariamente privato di questo diritto». È stato giustamente osservato che il linguaggio dell’articolo 4 della Carta africana, con il riferimento alla privazione “arbitraria” della vita, riecheggia chiaramente l’articolo 6, primo comma, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, e con ogni probabilità proibisce l’uso arbitrario della pena capitale(Huaraka T., “The African Charter on Human and Peoples’ Rights: A Significant Contribution to the Development of International Human Rights Law, in D. Prémont (a cura di), Essais sur le concept de “droit de vivre” enmémoire de YougindraKhushalani, Bruylant, 1988: 203.
Inoltre, la Carta africana rinvia al «diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e dei popoli», compresa la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e «gli altri strumenti adottati dalle Nazioni Unite». È, dunque, plausibile interpretare l’articolo 4 della Carta africana nel senso che incorpori norme come quelle disposte nelle Salvaguardie che garantiscono la protezione dei condannati a morte, in base alla risoluzione del Consiglio economico e sociale 1984/50, successivamente recepita dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 39/118. La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, istituita nell’ambito dell’Unione africana, prevede un meccanismo di petizione per mezzo del quale gli individui possono far pervenire delle comunicazioni. In seno all’Unione africana, la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli l’organo principale della difesa dei diritti umani. La Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ha il compito per conto dell’Unione africana di monitorare l’attuazione della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. La missione della Commissione è anche quella di promuovere, proteggere e interpretare le disposizioni della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. I prossimi anni saranno cruciali per l’adozione di un Protocollo addizionale alla Carta africana sui diritti umani e dei popoli sull’abolizione della pena di morte in Africa.
6. La contiguità territoriale e la tradizione nei rapporti obbligano l’Italia e gli altri paesi europei a prestare particolare attenzione al futuro dei paesi africani. Siamo pienamente immersi in una stagione in cui la consapevolezza dell’intreccio delle relazioni a livello planetario suscita motivazioni e istanze di unità e cooperazione sempre più allargate. È l’intuizione del presidente senegalese Léopold Sédar Senghor– primo capo dello Stato del Senegal indipendente, poeta e letterato, inventore della négritude, l’espressione tipica del meticciato tra cultura franco-europea e africana – che oltre cinquant’anni fa lanciò l’idea di Eurafrica, facendo riferimento a una visione di complementarietà dei due continenti, a partire dalla cultura. La vera cultura, sottolineò Senghor, è radicamento e sradicamento nello stesso tempo: radicamento alla terra della propria tradizione e apertura agli apporti fecondanti delle tradizioni straniere. Eurafrica è una visione – ha sottolineato Andrea Riccardi – in cui collocare le diverse identità nazionali europee e africane: «Eurafrica vuole essere una politica, ma anche un insieme di sentimenti e di idee tra mondi che si scoprono vicini».È una visione evocatrice di sentimenti di comunanza, che offre «un quadro di dignitosa reciprocità all’interesse con cui gli africani guardano all’Europa» (Marazziti M. – Riccardi A., 2004). Per dare forza a questa visione occorre effettuare scelte politiche che sviluppino un sentimento e una visione euro-africana in una prospettiva di coinvolgimento dei Paesi e delle loro società civili. In tal senso, è necessario favorire e sviluppare i contatti, le relazioni tra società e società, facilitando i trasferimenti di risorse e sostegno e incrementando un sistema di solidarietà e reciprocità. Ciò che si spera è di poter realizzare un flusso di comunicazioni e di collaborazioni che si formino stabilmente tra l’Europa e l’Africa e portino questi due giganti della geografia a considerarsi per quello che sono: due grandi continenti, molto vicini nello spazio e forzatamente molto prossimi nelle esperienze e nei destini personali e collettivi.
Nello spirito di questa prospettiva, da diversi anni la Comunità di Sant’Egidio per sviluppare nuove strategie e visioni comuni organizza annualmente Conferenze di ministri della Giustizia, giuristi, membri delle Corti Supreme, provenienti sia da Paesi che hanno abolito la pena capitale sia da Paesi mantenitori, con un’attenzione particolare al continente africano, sostenendo i percorsi legislativi, sociali, parlamentari, di supporto alle opinioni pubbliche fino alla riduzione o alla fine delle esecuzioni, di fatto o di legge, e all’abolizione.La Comunità di Sant’Egidio ha iniziato la sua attività dalla vicinanza concreta ai condannati a morte attraverso visite, corrispondenza, difesa legale, l’umanizzazione della condizione di vita carceraria, ed è diventata negli anni un protagonista globale della battaglia per una moratoria universale e per l’abolizione della pena capitale nel mondo. Negli anni ha promosso corrispondenza e contatti diretti e la difesa di oltre trecento condannati a morte in diverse aree del mondo; ha contribuito alla nascita, nel 2002 a Roma, presso la sede principale della Comunità, a Sant’Egidio, della Coalizione mondiale contro la pena di morte, ha promosso il Movimento mondiale delle città per la vita, le città contro la pena di morte – diventate oltre duemila città del mondo in soli venti anni –, ha dato vita all’Appello per una moratoria universale che ha raccolto leader di tutte le principali tradizioni religiose mondiali, credenti e non credenti, in un manifesto morale che ha raccolto oltre cinque milioni di firme in 153 Paesi ed è stato consegnato alle Nazioni Unite alla vigilia del voto della storica risoluzione dell’Assemblea generale sul rifiuto della pena di morte come mezzo di giustizia (2007); ha lanciato la Giornata internazionale delle città contro la pena di morte il 30 novembre di ogni anno – nell’anniversario della prima abolizione da parte di uno Stato della pena capitale, il Granducato di Toscana, il 30 novembre 1786 –; ha avviato percorsi di sostegno e di negoziato con Paesi mantenitori fino all’abolizione della pena capitale – dal Benin al Gabon, dall’Uzbekistan al Kazakhstan –; e promuove ogni anno almeno una Conferenza internazionale dei ministri della Giustizia che è un laboratorio di dialogo e un workshop internazionale in chiave abolizionista che coinvolge anno dopo anno Paesi ritenzionisti e abolizionisti in un lavoro comune. Dalla nascita, la Comunità di Sant’Egidio è membro eletto del Comitato esecutivo della coalizione mondiale contro la pena di morte.
7. Gli africani sentono un grande bisogno di promuovere i diritti umani, malgrado l’instabilità politica accompagnata da un eccesso di violenza, dal sottosviluppo e dalla guerra. L’abolizione della pena di morte è di sicuro un traguardo alla portata dei governi e della società civile africani. Non è una modesta riforma in mezzo alle enormi difficoltà del continente, ma ha un valore simbolico con il quale l’Africa riesce ad affermare la sua adesione ai valori universali.
La situazione in cui viviamoci dice che non esistono diritti conquistati ovunque e per sempre. E che per tutelare e affermare i diritti dell’uomo occorre un impegno costante e una continua ricerca dei mezzi più appropriati. Occorre avere il coraggio di guardare ai diritti umani non come a un elenco di valori o a un decalogo di buoni propositi, ma come conquiste del pensiero e della lotta per la dignità di ogni persona, non facili da realizzare e a volte in conflitto tra loro, eppure capaci di costituire un punto di riferimento essenziale per muoversi nel mondo complesso della globalizzazione. Sappiamo bene quali sono le difficoltà, quali sono gli ostacoli che finora hanno rallentato il cammino e che abbiamo ancora davanti. Le grandi convenzioni internazionali hanno dato risultati inferiori alle aspettative rispetto al loro intento di dare vita a un mondo riconciliato in cui, per citare Immanuel Kant, l’uomo è trattato sempre come un fine e non come un semplice mezzo. I diritti umani rappresentano allo stato attuale – ha osservato Raffaele Cantone – una cornice di riferimento tale da rendere difficilmente realizzabili, se non altro nelle dimensioni, fenomeni di sistematico/concreto/drammatico/crudele sterminio dettati da motivi politici o razziali come avvenuto durante il nazismo. Essi continuano, quindi, a costituire un punto di riferimento fondamentale e ciò persino a prescindere dalla loro effettività, perché rappresentano un indiscusso metro di valutazione, una sorta di “Codice dell’umanità”(Cantone R. – Paglia V. 2019: pp.166-167). «A ben guardare, non si tratta solo di poter utilizzare nuove categorie definitorie, di un nuovo sistema per “classificare” la realtà. È qualcosa di molto più importante», ha sostenuto il giurista Antonio Cassese, aggiungendo che «disponiamo ora di parametri di azione, per gli Stati e per gli individui. I precetti internazionali sui diritti umani impongono linee di comportamento, esigono dai governi azioni di un certo tipo e nello stesso tempo legittimano gli individui a levare alta la loro voce se quei diritti non vengono rispettati»(Cassese A.,2005: 4). Questa constatazione costituisce un punto di partenza per trovare un sostrato di valori comuni in grado di portare a un nuovo ordine, anche mondiale, di regole. Non è utopia. La storia recente ci insegna che, in ambito sia politico che giuridico, è possibile iniziare da un nucleo ristretto di princìpi condivisi, com’è accaduto per l’Unione europea, per dare vita in un secondo momento a organismi di maggior respiro.
La principale obiezione dei Paesi nei quali viene praticata la pena di morte è che si tratta di uno strumento che ogni Stato può liberamente adottare, di un “affare interno” a ogni singolo Paese, libero di scegliere questo strumento così come sceglie il proprio sistema economico, politico, sociale e culturale. Ma pur nel rispetto delle culture e delle diversità, delle differenti forme economiche e sociali, non è ammissibile che si possa rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Nessuno Stato può uscire dal sentiero dei diritti umani, che sono e devono essere universali. È possibile una vera “mondializzazione” di questi diritti, da un nuovo equilibrio tra il principio della sovranità nazionale e quello della salvaguardia dei diritti umani, al superamento delle concezioni tradizionali che escludevano la presenza di giudizi e comportamenti morali nell’ambito della politica internazionale. Se i diritti umani diventeranno la “lingua franca” del XXI secolo, proponendosi come l’unica forma di universalismo, cioè come unico insieme di valori universali, capace di non contrapporsi alle diverse identità culturali, religiose, politiche esistenti ma di esaltare, al contrario, le potenzialità di dignità, libertà e giustizia presenti in ognuna, allora vorrà dire che la sfida lanciata nel dicembre del 1948 – con la Dichiarazione universale dei diritti umani–non era azzardata.
C’è stato un tempo, non tanto lontano, in cui tutte le nazioni consideravano la pena di morte utile, ovvia e necessaria per punire una colpa grave. John Stuart Mill disse che l’intera storia del progresso umano è stata una serie di transizioni attraverso cui un costume o un’istituzione dopo l’altra sono passate, dall’essere presunte necessarie all’esistenza sociale, nel rango di ingiustizie universalmente condannate. Accadrà, crediamo, anche per la pena di morte. Non sappiamo quando. Siamo certi, però, che la sua scomparsa dal teatro della storia sarebbe un grande e indiscutibile segno di progresso morale e civile. Soprattutto se si pensa che la pena capitale è la più antica punizione che l’uomo conosca (la prima sentenza di morte scritta è datata 1850 a.C. e risale ai Sumeri).
In tal senso, è necessario riflettere sull’incompatibilità di pena di morte e democrazia. Perché la democrazia si fonda sulla possibilità di errore, sulla capacità di cambiare tornare a governare dopo una sconfitta, magari dopo politiche sbagliate. Politiche sbagliate possono causare anche molte più vittime della violenza individuale. L’irreversibilità dell’errore è incompatibile con la democrazia, perché contiene il rischio dell’annientamento e dell’azzeramento dell’altro. Anche il crimine più grande non può essere punito con la morte. Il fondamento della legge, di ogni legge è sempre la difesa della vita. Gli stati non possono aumentare, con un’altra morte, le violazioni della vita che vogliono esemplarmente punire. È il principio semplice che ha caratterizzato lo svolgimento del tredicesimo Congresso internazionale dei ministri della Giustizia Non c’è giustizia senza vita, tenutosi a Roma dal 1 al 2 marzo 2023, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, al qualeHanno partecipato ministri della Giustizia e rappresentanti di oltre 20 Paesi abolizionisti de iure o de facto (come Burkina Faso, Ciad, Zambia, Guinea Conakry, Repubblica Centroafricana, Liberia, Zimbabwe, Sri Lanka, Etiopia, Uganda), insieme a Paesi mantenitori (come Vietnam, Indonesia, Malesia).
La pena capitale abbassa tutta la società al livello di chi uccide. Promette un’impossibile guarigione dal dolore per i familiari delle vittime e invece ne crea di nuove. È una morte, innaturale, scientificamente organizzata, e contiene, per questa premeditazione, una tortura mentale in se stessa, ancor prima di quella fisica. È la legittimazione al livello più alto di una cultura di morte, mentre si spaccia per difesa della vita. È uno strumento irreversibile per combattere minoranze sociali, religiose, etniche, politiche. Non ci sarebbero stati leader come Nelson Mandela se fosse stata applicata, forse neanche Gandhi. Concludendo, dobbiamo avere insieme il coraggio di rispondere alla domanda semplice del bambino che chiede: «Ma se quando uno uccide un altro lo dobbiamo ammazzare, chi deve uccidere quello che uccide, l’assassino?».
Bibliografia
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