Articolo di Michele Mannoia
Che fine hanno fatto i Rom di Palermo, all’indomani della dismissione del campo? A che punto sono quei percorsi di inserimento sociale ed abitativo che avrebbero dovuto permettere alle persone rom di diventare finalmente soggetti attivi e visibili e, a noi,di vincere una partita cruciale in termini di civiltà e di democrazia? Questo articolo intende rispondere a questi interrogativi restituendo un quadro ben più realistico di quello immaginato da chi, trionfalisticamente, riteneva che la dismissione del campo della “Favorita” avrebbe consentito ai Rom palermitani di poter sognare un futuro migliore.
Quel campo – che doveva essere una soluzione provvisoria e che, invece, per quasi trent’anni è stato un ghetto etnico – fortunatamente non esiste più. La storia del campo e delle relazioni tra le persone rom con la città di Palermo ha inizio nei primi anni ’90 del Novecento quando, a causa degli sconvolgimenti provocati dalla guerra scoppiata nei territori della ex Jugoslavia, famiglie kosovare, serbe e montenegrine, cercarono rifugio nel capoluogo siciliano.Nel mese di ottobre del 1991, in seguito a forti momenti di tensione tra gli abitanti del quartiere Zen 2 (oggi San Filippo Neri) ed un gruppo di rom kosovari che avevano occupato abusivamente alcuni alloggi popolari, l’amministrazione comunale del tempo decise, con una scelta a dir poco infelice, di segregare i Rom sistemandoli presso il campo della Favorita; un luogo che da lì a qualche anno (nel 1996) sarebbe diventato parte della Riserva naturale orientata di Monte Pellegrino e che, in quanto tale, imponeva ai Rom il divieto assoluto di costruire fogne, baracche e condotte idriche.Successivamente, a partire dal 1998, in quello stesso spiazzale, confluirono anche alcuni Rom serbi che, nel frattempo, erano stati sgombrati dall’accampamento di via Messina Marine, oltre che un gruppo di Rom originari del Montenegro.
Fino al 2008, all’interno di quel campo, hanno vissuto Rom kosovari, di religione musulmana; Rom serbi, di religione cristiano-ortodossa e Rom montenegrini, alcuni dei quali musulmani, altri cristiano-ortodossi. In quell’unico spazio hanno coabitato circa 300 persone diverse tra loro per statusgiuridico, per provenienza geografica, per religione professata, per progetti di vita, per sogni e per aspirazioni. Eppure, tutte quelle persone sono state costantemente stigmatizzate e dispregiativamente etichettate come “zingari”, come gli “zingari” di Palermo.A queste famiglie di profughi, costrette a vivere senza acqua corrente, senza riscaldamento e senza impianti elettrici; a queste famiglie, vittime sacrificali di un potere fortemente asimmetrico, l’amministrazione della città di Palermo – in perfetta continuità con le politiche nazionali cheidentificavano nel falso assunto del nomadismo il tratto distintivo di queste comunità – ha offerto loro soltanto disprezzo e segregazione.
Anno dopo anno, molta di quella umanità si è andata disperdendo. All’indomani del decreto sicurezza varato,nel 2008, dall’allora Governo Berlusconi, i Rom montenegrini hanno lasciato la città per il timore di essere improvvisamente sgombrati dalle forze dell’ordine e, da lì a poco, anche alcune famiglie di kosovari si sono trasferite all’estero. Solo pochissimi fortunati sono riusciti ad abitare in alloggi ben più dignitosi delle baracche del campo. Alla fine del 2016, i Rom rimasti al campo erano soltanto 160 e, poco dopo, il numero degli abitanti si è ulteriormente ridotto a non più di un centinaio di persone.
Dal 2018, qualcosa è cambiato. L’amministrazione comunaledel tempo ha invertito la rotta, dichiarando di voler procedere non solo alla dismissione del campo, ma anche alla predisposizione di percorsi di fuoriuscita finalizzati all’inserimento abitativo e lavorativo per quelle poche famiglie rom che erano ancora rimaste al campo. Tale operazione – che era già stata finanziata con fondi comunitari estatali ed era stata inserita nelle misure del Progetto Operativo Nazionale “Città Metropolitane” – è stata accelerata dal provvedimento di sequestro del campo, disposto dalla Procura di Palermo nell’estate del 2018.
Purtroppo, però, l’operazione di trasferimento di alcune famiglie rom in abitazioni a disposizione del comune e dislocate in città non è mai una operazione semplice. Essa scatena sempre la guerra dei “poveri contro i poveri”. Come era prevedibile, al momento delle prime assegnazioni ai Rom di beni di proprietà comunale o di abitazioni confiscate ad esponenti mafiosi, le strade di quei quartieri si sono improvvisamente riempite di improvvisati “paladini” della giustizia sociale, di “capipopolo” e di gruppi politici all’opposizione che, gridando all’unisono “prima i palermitani”, hanno soffiato benzina sul fuoco del malessere e della disperazionedi chi abita nelle periferie, di chi è vittima di un sistema economico e sociale profondamente iniquo e di chi, con fatica, riesce a sbarcare il lunario e che, proprio per questo, ha bisogno di individuare un capro espiatorio, un nemico sul quale scaricare le proprie frustrazioni.
Nei primi giorni di aprile del 2019, in un clima abbastanza disteso, le ultime baracche del campo vennero dismesse, ponendo fine a quella vergogna cittadina e a quella modalità di gestione della presenza rom che è stata fallimentare sotto tutti i punti di vista: umano, sociale, politico ed economico.La chiusura del campo e la fuoriuscita dei Rom da quel ghetto doveva segnare un cambio di passo, dimostrando la possibilità e la convenienza di affrontare la questione abitativa con misure di carattere universalistico e di costruire nuovi patti di cittadinanza tra i Rom e la popolazione locale. Un alloggio dignitoso e un percorso di inserimento lavorativo avrebbero avuto ricadute positive in termini di partecipazione alla cittadinanza, di frequenza scolastica dei ragazzi rom e di relazioni sociali di questi ultimi con i membri della popolazione maggioritaria.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che la dismissione del campo fosse un obiettivo prioritario e improcrastinabile. Tuttavia, doveva essere altrettanto chiaro che senza il supporto di soluzioni strutturali preventivamente ben congegnate e di azioni sistemiche, volte a superare le emergenze sociali ed abitative della città di Palermo, quel confine tra il diritto degli “ultimi” e la loro esclusione sarebbe rimasto invalicabile. E così è stato! Quel confine, oggi, è ancora fortemente marcato. E, per certi versi, forse, per i Rom lo è ancora di più. Sì, è vero che essi non sono più segregati all’interno di un ghetto, ma è altrettanto vero che,per la maggior parte di loro, quell’inserimento abitativo e lavorativo, previsto dall’Azione 3.2.1 “Percorsi di accompagnamento alla casa per comunità emarginate” del PON Città metropolitane 2014-2020, è ancora molto lontano dall’essere stato realizzato. Gran parte di quelle personesono ancora oggi ospitate temporaneamente in strutture alberghiere e/o di accoglienza e per molti di loro i progetti di inclusione sociale, abitativa e lavorativa sono di là da venire.
A ben vedere, i risultati raggiunti dagli interventi attivati sul piano dell’incremento dell’occupazione dei destinatari coinvolti sembrano essere molto al di sotto degli obiettivi previsti. Certamente, la situazione di emergenza sanitaria ha amplificato le difficoltà nel reperire alloggi per le persone in condizione di grave marginalità economica e sociale; così come l’andamento del mercato immobiliare e il proliferare di B & B che hanno reso l’offerta di affitto privato fruibile soltanto da una minima parte della popolazione. A ciò si aggiunga,inoltre, non solo la rigidità della burocrazia amministrativa – che dovrebbe piuttosto provare ad uscire dal quadro regolamentare per trovare soluzioni adeguate a ciascun caso – ma anche, e soprattutto, la ritrosia dei proprietari ad affittare le proprie abitazioni a persone che, malgrado le garanzie dell’amministrazione e dei servizi sociali, sperimentano sulla loro pelle lo stigma di essere rom.
L’antiziganismo è fortemente radicato ed è impermeabile anche di fronte alla dimostrazione della sua infondatezza, anche di fronte alla garanzia di un affitto pagato al proprietario in un’unica soluzione e con due anni d’anticipo. Anni e anni di segregazione all’interno di quel ghetto monoetnico hanno prodotto miseria e marginalità. Il campo non c’è più ma, nei confronti dei Rom, restano le stigmatizzazioni e l’ostilità di gran parte della popolazione maggioritaria. Per quelle persone, paradossalmente, la vita fuori dal campo è diventata ancora più complicata di quanto non lo fosse in precedenza.
Le speranze di una vita più dignitosa, nutrite dagli ultimi abitanti del campo, si sono infrante di fronte alla cruda realtà di questa rinnovata condizione di marginalità. Utilizzando un artificio retorico – che purtroppo non è nient’affatto lontano dal vero – e alla luce dei risultati ottenuti, siamo costretti a prendere atto del fatto che per molte di queste famiglie quel fazzoletto di terra dimenticato e abbandonato, quello sfregio alla convivenza civile e democratica, quella quintessenza della discriminazione sociale, sia diventato nel loro immaginario un luogo al quale guardare con una certa nostalgia. Laddove c’era una baracca fatiscente, che aveva però un sapore, sia pur amaro, di casa e che consentiva ai membri della famiglia un minimo di privacy, oggi, per molte di loro, c’è solo un’unica stanza per un intero gruppo familiare ospitato all’interno di una struttura di accoglienza.
A conclusione di questa breve cronaca dal margine, non resta altro che prendere atto di questa ennesima sconfitta e denunciare la condizione di disuguaglianza pervasiva e sistemica perpetrata nei confronti di donne, di uomini e di bambini che portano già sulla loro pelle le numerose cicatrici dell’essere rom; persone alle quali, ancora una volta, consapevolmente, stiamo negando il futuro.